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 Telecomunicazioni

Chirichigno: l'Italia ha il dovere di investire nella larga banda
04.09.02*

Francesco Chirichigno, ex amministratore delegato di Telecom Italia e ora consulente del Ministro delle comunicazioni, è uno dei componenti della commissione interministeriale comunicazioni-innovazione che ha prodotto i documenti sullo sviluppo della larga banda in Italia. Dunque è la fonte più qualificata dalla quale ottenere informazioni e commenti su un problema di importanza vitale per il futuro del nostro Paese.

D. Dottor Chirichigno, come consulente del Ministro delle comunicazioni lei ha partecipato alla preparazione del rapporto sulla larga banda e delle relative linee-guida. Documenti che, qualche mese fa, avevano destato molto interesse e suscitato grandi aspettative. Contenevano, fra l'altro, indicazioni molto chiare sui vantaggi dello sviluppo della larga banda per il sistema-paese e affrontavano in termini condivisibili anche l'aspetto essenziale del digital divide. Ora, con il Documento di programmazione economica e finanziaria, sembra che tanti bei progetti siano destinati a restare sulla carta e che gli investimenti nelle TLC passino in secondo piano rispetto a quelli della "old economy": autostrade, ferrovie eccetera. E' giusta questa sensazione?

R. E' la sensazione che si può ricavare da una lettura un po'  fredda, non conoscendo alcuni elementi di contorno. La Presidenza del consiglio ha approvato il progetto della larga banda, indicandolo come un progetto globale e non settoriale.
E' facile osservare che nel DPEF ci sono più indicazioni per la domanda pubblica e meno per quanto riguarda l'infrastruttura e la domanda privata, però il progetto comprende la perfetta sincronia di questi tre elementi (infrastruttura, domanda pubblica e domanda privata), altrimenti possiamo solo parlare genericamente di servizi al cittadino, così come sono intesi tradizionalmente. Il DPEF è un'indicazione molto sommaria e non completa (e non completamente condivisibile), che entro il mese di settembre dovrà essere riempita di contenuti, di cifre e di date.
Per quanto riguarda le date, siamo tutti d'accordo che entro il 2005 questo progetto deve essere realizzato; per quanto riguarda le cifre purtroppo altrettanta convinzione non c'è, perché in questo Paese qualsiasi progetto subisce delle metamorfosi in funzione di fatti contingenti, che possono richiedere una diversa attenzione.

D. Però i fatti contingenti non dovrebbero distrarre l'attenzione da progetti di lungo respiro e di grande impatto per il futuro.

R. Il governo, e in particolare il presidente del consiglio e i due ministri che hanno fatto elaborare il piano, è convinto che senza larga banda non c'è assolutamente modernizzazione dell'Italia. L'Italia e gli altri Paesi europei, se vogliono veramente rimanere nel mercato globale, devono fare questa trasformazione, perché il problema non è soltanto italiano, ma europeo. La larga banda è essenziale per stare nel mercato globale, altrimenti le nostre imprese non sono in grado di competere. La domanda pubblica può essere vista nell'ottica di diminuire i costi della burocrazia e immettere risorse nel sistema, ma non è sufficiente. Noi vediamo la domanda pubblica come l'elemento che, modificato, deve essere sinergico alla cultura della domanda privata. Il privato deve poter utilizzare il pubblico in modo completamente diverso.

D. Lei dice che nel 2005 il progetto dovrebbe essere realizzato.Vuol dire che dopo il 2005 ci sarà la larga banda là dove serve?

R. Vuol dire che dovranno essere raggiunti i tre indici che abbiamo scritto nella nostra relazione, e cioè l'86,5 per cento della domanda pubblica, il 65 per cento della clientela business e il 35 per certo della domanda consumer. Viste le differenze che ci sono tra diverse zone del Paese, il digital divide oggi c'è e queste percentuali potrebbero accentuarlo. Per questo abbiamo scritto che tra una zona e l'altra dell'Italia (non divisa in Nord, Centro e Sud, ma di elevata, buona o bassa propensione al consumo) non ci deve essere una differenza superiore al 15 per cento.

D. Questo è un aspetto essenziale. Facciamo il caso di una zona, come ce ne sono tante, non lontana da una grande città, ma che non dispone di adeguati collegamenti stradali e ferroviari. La scarsità di infrastrutture di trasporto ha impedito la creazione di insediamenti industriali, quindi l'area è meno sviluppata economicamente. La domanda di larga banda è prevedibilmente scarsa e per questo non è inserita nei piani di diffusione dell'ADSL. Questo vuol dire che una zona già meno ricca delle altre non avrà le stesse possibilità di sviluppo, per esempio non potrà affermarsi il telelavoro e non si potranno costruire telecentri. E così sarà sempre più economicamente arretrata delle aree circostanti.

R. Nelle nostre intenzioni ovviamente no, ma le intenzioni non fanno i prodotti. Diciamo che le tecniche per la larga banda sono numerose e non ne scartiamo nessuna. Quindi alcune zone possono essere servite da fibra ottica, altre dal rame con la compressione, altre le vediamo servite dal satellite, altre ancora dalle power-line (cioè dall'utilizzo del sistema elettrico con la compressione del segnale) e altre, perché no? in misura limitata, dal wi-fi, cioè dalla struttura cordless che potrebbe consentire la larga banda.
E' indubbio che ci saranno sempre zone dove il business plan della singola area non ripaga il gestore, però è altrettanto vero che - e questo è il nostro convincimento - noi dobbiamo indicare, come Governo, degli elementi minimi grazie ai quali le singole zone possano sopravvivere. Ecco perché il 15 per cento è la misura della differenza massima tra una zona e un'altra. In una zona dove c'è una bassa propensione al consumo, ci sarà comunque una scuola: se diamo la larga banda alla scuola (e quindi con un costo a carico dello Stato) e se la scuola rende servizi che non si limitano a un banale e-learning, ma fa utilizzare la larga banda ai ragazzi in forma realmente interattiva, non passiva, si creerà maggiore domanda, maggiore propensione al consumo, e quindi maggiore propensione degli operatori a investire in quella zona.

D. Dunque torniamo ai business plan degli operatori di telecomunicazioni. Ma quando un paese è isolato fisicamente, la strada la costruisce lo Stato, non si rimette ai business plan dei venditori di asfalto.

R. Così entriamo in una tematica che non riguarda solo il mondo delle telecomunicazioni, ma tutte le macro-infrastrutture. Le macro-infrastrutture devono essere pubbliche o private? Posso dire che non ho condiviso, e non condivido ancora oggi, come è stata fatta la privatizzazione del mondo delle telecomunicazioni, perché la privatizzazione doveva essere fatta dopo la liberalizzazione e la liberalizzazione doveva essere fatta in un determinato modo, per mettere paletti e supporti.

D. La famosa "integrazione verticale".

R. Eh, sì, sono questioni rimaste aperte che oggi è molto più difficile recuperare. Per esempio, in Francia si sono accorti che France Telecom non sta andando da nessuna parte e stanno pensando addirittura a "rinazionalizzarla". Io questo non lo condivido, non è necessario, sarebbe veramente un tornare indietro. Però da questo nasce una serie di domande: se le infrastrutture devono continuare a essere gestite in un determinato modo e se anche i servizi devono essere gestiti sempre nello stesso modo. Qui mi riaggancio alle tematiche che Monti e Tesauro stanno portando all'attenzione del mondo europeo, se così si può sviluppare o meno il mercato, se il mondo delle telecomunicazioni non vada pensato in forma diversa.
Stando così le cose, e senza voler invadere il campo dei Monti e dei Tesauro, dico che ogni paese deve darsi delle regole sull'unbundling e quindi sull'utilizzazione dell'ultimo miglio, regole che possono essere anche sensibilmente diverse da quelle attuali, anche per la fornitura di questi servizi ai concorrenti, in modo tale che questi possano effettivamente fare concorrenza.
Oggi come oggi credo che la concorrenza sia ancora molto marginale, il fallimento dell'unbundling non è soltanto italiano, è europeo. Anzi, le regole italiane sono un po' più avanzate delle altre, ma si sta dimostrando che è a monte che dobbiamo studiare le cose, non a valle. Allora, se le telecomunicazioni sono un bene importante, se le telecomunicazioni possono far sviluppare un paese, rendendo competitive le imprese, bisogna trovare il modo per fare di questa infrastruttura uno strumento di accelerazione dell'economia, e non di freno.
Un'impresa che dovrà usare la banda stretta sarà un'impresa destinata al fallimento, perché i suoi costi saranno molto elevati e la sua capacità non sarà di creare, ma di mantenere, e un'impresa che vuol soltanto mantenere è destinata a perdere e non a crescere.

D. Torniamo al problema delle aree dove la larga banda non ci sarà fino al 2005, e magari anche dopo il 2005. Non è possibile immaginare una soluzione "tampone", o alternativa, che sia utile alla piccola o media impresa, o al professionista (per la grande impresa il problema è solo il costo delle linee dedicate)? Per esempio fornire una linea ISDN a un costo molto più basso di quello attuale? Non potrebbe lo Stato intervenire in queste situazioni?

R. La risposta è facile e difficile nello stesso tempo. Difficile che lo Stato intervenga accollandosi degli oneri che il bilancio non consente. Non ci sono le risorse. Però io ritengo che anche se le risorse ci fossero, un intervento di questo tipo non sarebbe un grosso salto di qualità. Il vero salto di qualità sarebbe la creazione di un mercato di player che possano costruire l'infrastruttura. Perché altrimenti faremmo un'altra volta un politica di breve respiro. Io dico che dobbiamo pensare a come far crescere l'Italia nel futuro. Il provvedimento tampone lo vedo semplicemente come un rinvio e quindi non come una creazione di ricchezza.
Meglio sarebbe, ma vorrei che nessuno mi ascoltasse, allungare di un anno il piano globale della larga banda, per averlo nella sua interezza nel 2006 piuttosto che nel 2005, con la sinergia infrastruttura-domanda pubblica-domanda privata. Sarebbe un problema economico che peserebbe sull'industria, ma migliore di una realizzazione parziale o con provvedimenti tampone. Preferirei studiare un modello di diversa distribuzione temporale che di diversa distribuzione concettuale.

D. Il rifiuto di una "diversa distribuzione concettuale" significa, se ho capito bene, che lei considera il piano per la larga banda come la soluzione ideale per far decollare il sistema-paese. Ma ci sono anche ostacoli di altro genere, soprattutto sul piano normativo.

R. Certo, molte leggi devono essere cambiate in funzione della larga banda. Mi riferisco per esempio alle norme sulla sicurezza del decreto legislativo 626 applicate al telelavoro, che dovrebbe essere uno dei motivi di maggiore utilizzo della larga banda. Se è impensabile che un lavoratore in ufficio possa agire a una certa velocità poi tornare a casa e agire a un'altra velocità, è altrettanto impensabile che tutte le prescrizioni del decreto 626 possano essere automaticamente trasferite dall'impresa all'abitazione, pur lavorando nella massima sicurezza.
Occorre della fantasia, io non sono un esperto di questa materia, non voglio dare ricette. Voglio soltanto dire che il telelavoro deve svilupparsi, e con le regole attuali il telelavoro non si può sviluppare. Io sono un fautore del lavoro collegiale, però ci sono alcune attività che possono essere svolte benissimo dai professionisti a casa. Ecco perché le cifre del'86,5, 65 e 35 per cento: se non c'è sinergia tra queste domande, non possiamo sviluppare effettivamente la larga banda.

D. Ma qui torniamo al discorso fatto poco fa, l'esempio di  una zona che si può sviluppare solo con il telelavoro, perché l'infrastruttura viaria è insufficiente. Ma in partenza non ci sono attività che richiedono la larga banda, quindi nessuno ce la porta e quindi non si può sviluppare il telelavoro o fare un telecentro. Un circolo vizioso senza fine.

R. Però possiamo vedere la cosa anche da un punto di vista positivo. In queste zone la pubblica amministrazione (non dico lo Stato, perché non condivido una politica dirigistica), l'amministrazione di quella frazione, di quel comune, deve occuparsi di queste cose. E' molto più costoso costruire una strada per "andare" che una strada informatica. Non credo che un'amministrazione locale possa non interessarsi a questo aspetto. O cambiamo completamente la nostra mentalità, o non possiamo lamentarci se abbiamo conflittualità, violenza, criminalità: ce le creiamo noi stessi, se ghettizziamo alcune zone. Questo non è possibile se vogliamo essere un paese che veramente vuole progredire.
Il Paese deve venir fuori da queste sacche. Quindi, fermo restando che le casse dello Stato al momento sono piuttosto in secca, forse si possono rivedere alcune priorità. Senza prendere cappello verso niente e verso nulla, è da qualche tempo che qualcuno pone la domanda se il ponte sullo Stretto di Messina è prioritario o non lo è. Io non rispondo perché non mi compete, però forse sono queste le priorità che bisogna stabilire per andare avanti. Non possiamo stare fermi. Se facciamo la politica della banda stretta, le aziende possono ottimizzare alcune cose, si possono tagliare dei costi, ma non basta. La riduzione dei costi è un dovere dei manager, l'investimento è qualcosa di più difficile, ma è ciò che contraddistingue il leader dal manager.
L'Italia ha il dovere di ridurre i costi, ma soprattutto di investire, perché altrimenti è inutile parlare di globalizzazione.