Corte cost. 23.03.1968, n. 11
Ritenuto in fatto
1. Con ordinanza del 5 giugno 1967, emessa nel procedimento penale a carico di
Giuseppe Settineri e Giuseppe Longhitano, il Pretore di Catania ha sollevato
varie questioni di legittimità costituzionali concernenti numerose disposizioni
della legge 3 febbraio 1963, n. 69, relativa all'ordinamento della professione
di giornalista.
Dopo aver osservato che nel giudizio innanzi a lui pendente vanno applicate
norme che, imponendo l'iscrizione obbligatoria nell'albo, costituiscono una
limitazione assoluta della libertà di stampa e dopo aver messo in evidenza che
la sopravvenuta amnistia del reato ascritto agli imputati non esclude la
rilevanza della questione sulla legittimità costituzionale delle norme che lo
configurano, il Pretore enuncia le ragioni che gli fanno ritenere non
manifestamente infondati i dubbi sulla costituzionalità delle disposizioni
impugnate e che possono così riassumersi:
1) l'art. 29 della legge condiziona l'iscrizione nell'elenco dei professionisti
alla previa iscrizione nel registro dei praticanti ed all'esercizio continuativo
della pratica per almeno 18 mesi: con il che la possibilità di intraprendere
l'attività giornalistica viene fatta dipendere dalla completa discrezionalità
- artt. 33 e 34 - degli editori, dei direttori dei giornali e, attraverso
l'ordine, dei giornalisti già iscritti;
2) l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti - 35 - è condizionata alla
dimostrazione di aver svolto attività retribuita per almeno due anni, alla
certificazione dei direttori delle pubblicazioni ed alla valutazione dei singoli
Consigli dell'ordine: e ciò col pericolo di una possibile forma di censura
ideologica.
A proposito di queste prime due censure il Pretore, rilevato che alla
discrezionalità altrui le suddette norme rimettono la possibilità di
esercitare un diritto di libertà costituzionalmente garantito e da valutare
anche in riferimento all'art. 3 della Costituzione, esclude ogni possibilità di
raffronto tra l'istituzione dell'albo dei giornalisti e gli albi relativi ad
altre attività professionali che non riguardano l'esercizio di diritti pubblici
soggettivi, ed osserva che la libertà di manifestare il proprio pensiero non
tollera limitazioni che non trovino fondamento negli stessi principi
costituzionali;
3) gli artt. 46 e 47, nelle parti in cui prescrivono l'obbligo di iscrizione
all'albo per i direttori e i vice direttori responsabili dei quotidiani, dei
periodici e delle agenzie contrastano sia con l'art. 21 che con gli artt. 18, 19
e 33 della Costituzione, perchè possono compromettere la libertà di stampa, la
libertà religiosa, la libertà di associazione e la libertà della cultura;
4) l'art. 36 condiziona l'iscrizione di uno straniero ad un trattamento di
reciprocità, laddove l'art. 21 della Costituzione garantisce a
"tutti" la libera manifestazione del pensiero; ed inoltre la
limitazione dell'iscrizione - v. art. 33 reg. - a chi abbia esercitato la
professione in conformità alle leggi dello Stato di appartenenza soffoca la
libera voce di chi è cittadino di un paese che non conosca la libertà di
stampa;
5) l'art. 63, comma terzo, prevede la partecipazione di giornalisti designati
dal Consiglio dell'ordine ai collegi giudiziari di primo e secondo grado, ma, in
quanto non prevede le garanzie necessarie ad assicurarne l'indipendenza, viola
l'art. 108 della Costituzione;
6) la struttura di corporazione chiusa, propria dell'ordine, fa apparire
costituzionalmente illegittimi: a) l'art. 28 (v. anche art. 32 reg.), che affida
alla decisione irrevocabile del Consiglio la valutazione della natura delle
pubblicazioni a carattere tecnico, professionale e scientifico; b) l'art. 47,
comma primo, che attribuisce al Consiglio il compito di accertare se determinate
pubblicazioni siano organi di partiti o di movimenti politici o di
organizzazioni sindacali, e ciò col pericolo che siano limitati i diritti
riconosciuti dagli artt. 39 e 49 della Costituzione; c) gli artt. 51, c) e d),
54 e 55, relativi alla sospensione ed alla radiazione, perchè queste misure
colpiscono non solo il singolo, ma anche il periodico, al quale vien meno uno
dei requisiti richiesti per la registrazione; d) l'art. 24, che attribuisce al
Ministro di grazia e giustizia poteri che possono incidere sulla libertà di
stampa.
L'ordinanza mette in evidenza che, pur essendo strettamente rilevanti per il
giudizio in corso solo le questioni relative agli artt. 45, 29, 33, 34 e 35,
vengono rimesse alla Corte anche le altre disposizioni di cui si è fatto cenno
perchè la Corte ne pronunzi la caducazione in forza dell'art. 27 della legge 11
marzo 1953, n. 87. Il Pretore conclude col rilievo che molte delle norme
impugnate non sarebbero forse incostituzionali se l'albo non avesse carattere di
obbligatorietà, e a tal proposito ricorda sia le norme fasciste che proprio
attraverso la regolamentazione dell'attività giornalistica attentarono alla
libertà di stampa, sia le opinioni nettamente contrarie all'istituzione
dell'albo espresse, durante la Costituente e dopo, da eminenti personalità del
mondo democratico.
2. L'ordinanza, regolarmente notificata alle parti, al pubblico ministero ed al
Presidente del consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due
Camere, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 271 del 28 ottobre 1967.
Nel presente giudizio si sono costituiti il sig. Giuseppe Longhitano, l'ordine
dei giornalisti di Sicilia ed il Presidente del consiglio dei ministri.
La difesa del Longhitano, dopo aver rilevato che l'attività svolta dal
giornalista professionista è in sostanza attività di lavoro subordinato e che
perciò la legge in esame applica la normativa generale concepita per i liberi
professionisti a persone che a tale categoria non appartengono, denuncia il
pieno contrasto fra la legge che riserva l'attività giornalistica solo a chi
sia iscritto in un albo ed il principio costituzionale che a tutti garantisce il
diritto di manifestare il proprio pensiero con lo scritto o con ogni altro mezzo
di diffusione e, dunque, anche attraverso il giornale, che è il più antico e
più usato strumento di propaganda delle idee: contrasto ancor più evidente se
si considera che la stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni, mentre la
legge consente la redazione del giornale solo a chi abbia ricevuto il crisma di
un apparato in vario modo agganciato ad organi statali. Nè varrebbe, secondo la
difesa, far richiamo a norme le quali impongono prove di capacità per
l'esercizio di determinate attività, perchè esse presuppongono la necessità
di accertare doti tecniche a tutela di interessi dei terzi, laddove pretendere
che il giornale sia ben fatto significa imprimergli un carattere di ufficiosità:
il giornalismo si avvicina all'arte e non tollera altro giudizio che quello del
pubblico dei lettori, men che mai un giudizio (ad es. perfino sull'obbligo del
rispetto della verità sostanziale dei fatti) che l'art. 2 finisce con
l'affidare addirittura ai Tribunali dello Stato. La legge, continua la difesa,
può divenire, ad un primo avvento di governo autoritario, pericoloso mezzo di
pressione e contrasta altresì con l'art. 3, secondo comma, della Costituzione,
perchè, pretendendo titoli di cultura, impedisce a soggetti che non li
posseggano o non possano sottoporsi alla pratica, di dar vita ad un giornale;
con gli artt. 18, 19, 39 e 49 della Costituzione perchè la pubblicazione di un
giornale può essere il fine di un'associazione, può servire allo scopo di
promuovere un risveglio religioso, può avere finalità sindacali o politiche;
con l'art. 33 perchè il campo prossimo al giornalismo è quello della cultura e
dell'arte; infine con l'art. 108 della Costituzione perchè è la maggioranza
del Consiglio dell'ordine, che quasi sempre ha colorazione politica, a designare
i componenti del collegio giudicante e perchè questa designazione è fatta
dallo stesso organo contro le cui deliberazioni si ricorre.
Tutte queste ragioni - così conclude la difesa - dimostrano l'incostituzionalità
della legge, ma non pregiudicano la possibilità di contratti collettivi di
categoria e anche di leggi che in materia di concorsi di previdenza ecc.
dovessero operare distinzioni tra categorie e categorie di giornalisti, secondo
il criterio dell'importanza del giornale, dell'intensità di opera prestatavi e
così via.
3. Opposte sono le conclusioni alle quali perviene la difesa dell'ordine dei
giornalisti di Sicilia (atto di deduzioni depositato il 16 novembre 1967) la
quale, dopo una breve ricostruzione delle circostanze di fatto che diedero
origine al processo di merito, osserva che lo stesso Pretore ha dichiarato
irrilevanti le questioni concernenti alcuni articoli della legge sicchè
l'oggetto del giudizio di costituzionalità, in base ai principi, deve
riguardare solo gli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 in riferimento agli artt. 21 e 3
della Costituzione. Ciò premesso, la difesa contesta la fondatezza dei dubbi
prospettati dal giudice "a quo": ed infatti, a suo avviso, è da
escludere che da parte degli editori, dei direttori e degli stessi ordini possa
essere esercitata una qualsiasi discrezionalità in ordine ai vari momenti del
procedimento di iscrizione nell'albo; è certo che tutti i giornali ospitano
scritti di non giornalisti, e la stessa legge, disponendo che chi chiede di
essere incluso nell'elenco dei pubblicisti esibisca giornali e periodici
contenenti suoi scritti, conferma che è ben possibile esprimere il proprio
pensiero attraverso i giornali senza avere qualifiche professionali; in
definitiva la legge impugnata è congegnata in modo da salvaguardare
rigorosamente la libertà ed ha a solo fine la tutela del giornalista contro
l'imprenditore, affidata ad un ordine a struttura democratica.
La difesa dell'ordine, per completezza di esposizione, esamina anche le altre
questioni che, per quanto in precedenza esposto, a suo parere, devono essere
ritenute irrilevanti. In particolare essa sostiene: a) gli artt. 46 e 47 sono
incensurabili, perchè se sul direttore e vice direttore gravano particolari
responsabilità, non si può non richiedere che tali cariche siano ricoperte da
persone qualificate attraverso l'iscrizione nell'albo; b) la disciplina relativa
all'iscrizione del giornalista straniero è infondata, perchè l'iscrizione in
un elenco non viola la libertà di manifestazione del pensiero; c) la
particolare composizione dei collegi giudicanti di primo e secondo grado è
legittima alla stregua della stessa giurisprudenza di questa Corte che si è già
occupata di collegi aventi quali componenti soggetti estranei alla magistratura;
d) il giudizio del Consiglio sulla natura tecnica, professionale o scientifica
di pubblicazioni non è libero, ma ha il carattere di discrezionalità tecnica;
e) per quanto concerne le eccezioni stabilite per i periodici di partito
politico o di sindacato, si tratta di una circostanza obiettiva che qualunque
giudice può accertare; f) che la sospensione o radiazione dall'albo del
direttore di giornali faccia venir meno uno dei requisiti richiesti per la
registrazione del periodico è cosa del tutto logica e inevitabile; g) i poteri
conferiti al Ministro sono gli stessi che spettano nei confronti di qualsiasi
ordine professionale e non si vede quale norma costituzionale sia violata. La
difesa conclude chiedendo che tutte le questioni sollevate dal Pretore vengano
dichiarate non fondate.
4. Secondo l'Avvocatura dello Stato - v. atto di deduzioni depositato il 17
novembre 1967 - la stessa civiltà contemporanea, allargando l'orizzonte sul
quale la collettività porta la sua attenzione e accrescendo le possibilità
tecniche dell'informazione, imprime all'attività giornalistica uno spiccato
carattere di professionalità che non poteva lasciare insensibile il
legislatore. In questa premessa va inquadrata la legge in esame, che non appare
in contrasto con la Costituzione. Già la Corte, infatti, ha riconosciuto (sent.
n. 38 del 1961) che il legislatore ha potestà di stabilire adeguata disciplina
all'esercizio della manifestazione del pensiero attraverso la stampa, ed è da
escludere che l'art. 21 della Costituzione richieda che il diritto ivi
consacrato debba necessariamente esercitarsi attraverso la professione di
giornalista. La legge in esame non nega che chi non voglia intraprendere la
professione giornalistica possa limitarsi ad un'attività giornalistica
occasionale, e di conseguenza è erroneo ritenere che per poter manifestare il
proprio pensiero sia indispensabile esercitare la professione di giornalista:
sicchè la questione di costituzionalità è totalmente infondata. Tale essa
appare anche per quanto riguarda le norme che disciplinano le modalità
dell'iscrizione, tutte intese all'accertamento di requisiti che hanno natura
specializzante: e non è dato vedere come la conoscenza delle cognizioni
richieste dalla legge nonchè l'esercizio della pratica o l'esibizione di
scritti possano in qualche modo limitare la libertà del soggetto. Circa le
altre questioni sollevate dal Pretore, anche l'Avvocatura mette in evidenza che
la stessa ordinanza le dichiara irrilevanti: esse comunque sono infondate perchè
le disposizioni impugnate sono tutte in armonia con le caratteristiche proprie
di un albo professionale e coi poteri di autogoverno dell'ordine, il cui
esercizio è sempre sindacabile in via giurisdizionale.
5. Tutte le parti hanno depositato memorie illustrative delle tesi già
sostenute negli atti di costituzione.
La difesa del Longhitano sottolinea, anzitutto, il contrasto fra l'albo dei
giornalisti, disciplinato dalla legge impugnata, col sistema generale degli albi
professionali: i giornalisti, infatti, non sono liberi professionisti, ma
impiegati; la disciplina delle classi professionali in ordini o collegi ha
sempre lo scopo di tutelare un interesse sociale, e presuppone che già ci sia
una delimitazione degli appartenenti alla categoria attraverso la qualificazione
di un titolo di studio, laddove, come è logico, l'ordine dei giornalisti
prescinde da tale requisito; gli ordini non sono creati per perseguire interessi
sindacali, sicchè lo scopo attribuito alla legge, e, cioè, la tutela della
categoria, è insussistente, come è dimostrato dalla concomitante presenza di
contratti collettivi stipulati dalle associazioni. Dopo aver definito come atto
di ammissione l'iscrizione nell'albo, la difesa osserva che rilevante ai fini
della valutazione della violazione dell'art. 21 della Costituzione è il
controllo amministrativo che si svolge nei confronti dei giornalisti al momento
dell'ammissione (artt. 31, 34, 35), nel corso dell'esercizio professionale
(procedimento disciplinare in relazione a fatti non conformi al decoro ed alla
dignità; azione giudiziaria ex art. 63 ma con collegi integrati da un
giornalista professionista e da un pubblicista) ed esercitato anche dal Ministro
della giustizia. Fatta questa ampia premessa, la memoria prosegue affermando che
la disciplina dell'albo dei giornalisti affievolisce il diritto soggettivo
prefetto nascente dell'art. 21 della Costituzione, e ciò a causa del
conferimento di una potestà discrezionale che dà luogo anche a disparità di
trattamento: richiamando quanto già detto, la difesa conduce un analitico esame
delle norme che tale discrezionalità affidano all'ordine e conclude che
siffatto regime integra una prima violazione degli artt. 21 e 3 della
Costituzione, dalla quale deriva la illegittimità non solo di singole norme ma
dell'intera legge: tuttavia anche le ulteriori censure mosse dall'ordinanza di
rimessione ad altre disposizioni del provvedimento sono pienamente fondate.
Ad avviso della difesa dell'ordine dei giornalisti di Sicilia, invece, la tesi
della incostituzionalità della legge non poggia su alcuna argomentazione
giuridica, ma nasce dalla confusione fra due fenomeni nettamente distinti, vale
a dire l'esercizio della professione giornalistica e la libertà di
manifestazione del pensiero a mezzo della collaborazione a giornali.
Quest'ultima è e può essere esercitata da chiunque, come è dimostrato dalla
realtà dei fatti che trova pieno riscontro nelle norme in esame: l'art. 35
della legge infatti presuppone ovviamente la possibilità di collaborazione
giornalistica, regolarmente retribuita, da parte di chi giornalista non è. Ciò
è sufficiente, secondo la difesa, a dimostrare che la legge non pone alcuno
ostacolo a chi voglia scrivere sui giornali e non viola la libertà sancita
dall'art. 21 della Costituzione: tuttavia va anche aggiunto che la tesi
avversaria, secondo la quale non si potrebbe rinvenire giustificazione alcuna
all'istituzione dell'ordine dei giornalisti, è inesatta perchè non tiene conto
della mutata realtà in cui gli ordini professionali oggi si muovono, portandoli
ad interessarsi sempre più ai professionisti impiegati. L'ordine dei
giornalisti si inserisce in questa problematica contemporanea, regola una realtà
assai complessa, e la sua istituzione - che, tuttavia, non impone la iscrizione
nell'albo quale presupposto della collaborazione ai giornali - risponde
all'esigenza di apprestare una garanzia di serietà di preparazione
professionale, attua una tutela della professione, garantisce i giornalisti nei
confronti delle imprese.
L'Avvocatura dello Stato a sua volta richiama le trasformazioni sociali che
giustificano il carattere di professionalità del giornalismo e mette in
evidenza che la legge non impone affatto l'esercizio della professione a chi
voglia manifestare il proprio pensiero a mezzo della stampa: l'eventualità che
il giornale rifiuti di ospitare scritti di un non giornalista è irrilevante,
perchè anche il giornalista professionista può non ottenere di essere assunto
presso un giornale. Quanto alle norme ritenute dallo stesso Pretore irrilevanti,
l'Avvocatura osserva che l'ordinanza invoca l'art. 27 della legge 11 marzo 1953,
n. 87, non a proposito, perchè tale disposizione può essere applicabile solo
nei limiti dell'impugnazione e non nel caso di questioni costituzionali
totalmente diverse.
6. Nel corso di un procedimento civile, promosso dalla signora Maria Ricciardi
Cuniberti per impugnare la deliberazione del 22 settembre 1966 con la quale il
Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti aveva respinto il suo ricorso
avverso il provvedimento di cancellazione dall'albo emanato dal Consiglio
interregionale Piemonte-Valle d'Aosta, il Tribunale di Torino ha sollevato di
ufficio una questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma terzo,
della legge 3 febbraio 1963, n. 69, in riferimento agli artt. 102, secondo
comma, e 108 cpv. della Costituzione.
L'ordinanza, affermata la rilevanza della questione, osserva che l'ordinamento
costituzionale, ispirato al principio dell'unità della giurisdizione, autorizza
le sezioni specializzate, ma solo a patto che queste non si trasformino in veri
e propri giudici speciali: ipotesi che si verifica quando vien meno
l'indipendenza dei membri laici del collegio. Dopo aver richiamato i principi
affermati da questa Corte nella sentenza n. 108 del 1962 relativa alle sezioni
specializzate agrarie, il Tribunale di Torino rileva che nella norma in esame -
la quale prevede l'integrazione del collegio con la partecipazione di un
giornalista e di un pubblicista nominati in numero doppio dal Presidente della
Corte di appello su designazione del Consiglio nazionale dell'ordine - si
riscontrano le stesse deficienze che in quella occasione la Corte ritenne
costituissero motivo di illegittimità costituzionale: da una parte, infatti,
manca una sufficiente specificazione dei requisiti di idoneità e capacità del
membro laico, tale non potendo ritenersi la mera qualifica di giornalista;
dall'altra non viene assicurata la necessaria indipendenza nei confronti
dell'organizzazione di provenienza, nè la norma accenna ai casi di ricusazione
o di astensione o a quelli di sostituzioni e supplenza, con la conseguente
impossibilità di dare applicazione agli artt. 51 e 52 del codice di procedura
civile.
7. L'ordinanza, emessa il 7 febbraio 1967, ritualmente notificata alle parti e
al Presidente del consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due
Camere, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 190 del 29 luglio 1967.
Nel precedente giudizio si è costituita - atto depositato l'8 maggio 1967 - la
sola Avvocatura dello Stato in rappresentanza e difesa del Presidente del
consiglio. Nelle deduzioni ed in una successiva memoria essa sostiene che
proprio alla stregua della giurisprudenza di questa Corte - sent. n. 76 del 1961
e n. 108 del 1962 - la questione sollevata dal Tribunale di Torino appare non
fondata: ed infatti, nella specie, l'idoneità del membro laico è inerente alla
stessa appartenenza alla categoria professionale disciplinata per legge
dall'ordine e l'indipendenza - che nelle norme costituzionali sembra peraltro
doversi riferire all'indipendenza "esterna" - è assicurata pienamente
perchè, una volta nominati, gli esperti sono sottratti ad ogni ingerenza
dell'ordine. L'Avvocatura conclude osservanza che il Consiglio nazionale, su
designazione del quale la nomina viene effettuata, non ha alcun potere nè sul
professionista nè sull'ordine regionale al quale questo è iscritto; la nomina
in numero doppio assicura, infine, l'osservanza del principio della
precostituzione del giudice e l'applicazione degli istituti dell'astensione e
della ricusazione.8. Nell'udienza pubblica i difensori delle parti hanno
ampiamente illustrato le rispettive tesi e conclusioni.
Considerato in diritto
1. Le ordinanze del Pretore di Catania e del Tribunale di Torino propongono
questioni di legittimità costituzionale concernenti disposizioni contenute
tutte nella legge 3 febbraio 1963, n. 69, e pertanto i relativi giudizi,
congiuntamente discussi nell'udienza pubblica, possono essere riuniti e decisi
con unica sentenza.
2. Il Pretore di Catania esplicitamente afferma che rilevanti per la decisione
della causa innanzi a lui pendente sono solo le questioni riguardanti gli artt.
45, 29, 33, 34 e 35, che vengono impugnati in riferimento agli artt. 3 e 21
della Costituzione. Egli ritiene, tuttavia, di poter sottoporre al controllo
della Corte, in forza dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, numerose
altre disposizioni della stessa legge, e precisamente gli artt. 46, 47 e 63,
terzo comma, 28 cpv., 51, lett. c) e d), 54, 55 e 24.
Questo secondo gruppo di questioni - formulate anche in rapporto a norme
costituzionali diverse da quelle in relazione alle quali vengono denunziati gli
articoli ritenuti rilevanti - non può formare oggetto del presente giudizio. Ed
infatti la norma procedurale invocata dal Pretore attribuisce solo alla Corte
costituzionale la competenza ad accertare ed a dichiarare se e quali
disposizioni legislative siano illegittime a causa dell'annullamento di quelle
ritualmente sottoposte al suo esame, ma non consente affatto che il giudice
"a quo" estenda l'impugnativa al di là delle norme applicabili alla
controversia e proponga in questa guisa - contro il disposto dell'art. 23 della
legge 11 marzo 1953, n. 87 - questioni del tutto irrilevanti per la decisione
del giudizio principale.
Da ciò consegue che l'esame della Corte deve essere portato esclusivamente
sugli artt. 45, 29, 33, 34 e 35 della legge, nonchè sull'art. 63, terzo comma,
che forma oggetto della questione sollevata dal Tribunale di Torino. Va peraltro
aggiunto che il contenuto di altre disposizioni della legge sarà tenuto
presente dalla Corte, come innanzi si dirà, in funzione di una compiuta
valutazione della legittimità costituzionale dell'art. 45.
3. La legge 3 febbraio 1963, n. 69, ha istituito l'ordine dei giornalisti, gli
ha affidato la tenuta dell'albo, ne ha disciplinato la struttura e il
funzionamento: l'art. 45 ha condizionato all'iscrizione nell'albo l'uso del
titolo e l'esercizio della professione di giornalista, sanzionando penalmente i
corrispondenti divieti a norma degli artt. 348 e 498 del codice penale.
Non spetta alla Corte valutare l'opportunità della creazione dell'ordine, perchè
l'apprezzamento delle ragioni di pubblico interesse che possano giustificarlo
appartiene alla sfera di discrezionalità riservata al legislatore. Compete
invece alla Corte accertare se la riserva della professione giornalistica ai
soli iscritti all'ordine ed il modo in cui la legge ha disciplinato il regime
dell'albo comportino la violazione del principio costituzionale - art. 21 - che
a tutti riconosce il "diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione": un
diritto, come altre volte è stato detto (cfr. sent. n. 9 del 1965) coessenziale
al regime di libertà garantito dalla Costituzione, inconciliabile con qualsiasi
disciplina che direttamente o indirettamente apra la via a pericolosi attentati,
e di fronte al quale non v'è pubblico interesse che possa giustificare
limitazioni che non siano consentite dalla stessa Carta costituzionale.
4. Ciò posto, la Corte osserva che per un'esatta valutazione del fondamento
della questione sottoposta al suo esame occorre tener presente che la legge
impugnata, realizzando un proposito espresso fin dal 1944 dal legislatore
democratico (art. 1 del D.L.Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), disciplina l'esercizio
professionale giornalistico e non l'uso del giornale come mezzo della libera
manifestazione del pensiero: sicchè è esatto quanto sostengono sia la difesa
dell'ordine di Sicilia sia l'Avvocatura dello Stato, che essa non tocca il
diritto che a "tutti" l'art. 21 della Costituzione riconosce. Questo
sarebbe certo violato se solo gli iscritti all'albo fossero legittimati a
scrivere sui giornali, ma è da escludere che una siffatta conseguenza derivi
dalla legge. Ne costituisce riprova, oltre l'oggetto stesso del provvedimento,
l'esplicita disposizione contenuta nell'art. 35: il quale, in quanto subordina
l'iscrizione nell'elenco dei pubblicisti alla prova che il soggetto interessato
abbia svolto un'"attività pubblicistica regolarmente retribuita per almeno
due anni", dimostra che la stessa legge considera pienamente lecita anche
la collaborazione ai giornali che non sia nè occasionale nè gratuita, Senza
che ci sia bisogno di affrontare questioni di interpretazione non essenziali per
la presente decisione, appare certo che l'art. 35 circoscrive la portata del
divieto sancito nell'art. 45, limita l'estensione dell'obbligo di iscrizione
all'albo e, in definitiva, conferma che l'appartenenza all'ordine non è
condizione necessaria per lo svolgimento di un'attività giornalistica che non
abbia la rigorosa caratteristiche della professionalità.
5. Questa conclusione, tuttavia, non esaurisce la questione sottoposta alla
Corte. L'esperienza dimostra che il giornalismo, se si alimenta anche del
contributo di chi ad esso non si dedica professionalmente, vive soprattutto
attraverso l'opera quotidiana dei professionisti. Alla loro libertà si
connette, in un unico destino, la libertà della stampa periodica, che a sua
volta è condizione essenziale di quel libero confronto di idee nel quale la
democrazia affonda le sue radici vitali. E nessuno può negare che una legge la
quale, pur lasciando integro il diritto di tutti di esprimere il proprio
pensiero attraverso il giornale, ponesse ostacoli o discriminazioni all'accesso
alla professione giornalistica ovvero sottoponesse i professionisti a misure
limitative o coercitive della loro libertà, porterebbe un grave e pericoloso
attentato all'art. 21 della Costituzione.
Sotto questo profilo della questione, che di certo è il più delicato, la Corte
deve in primo luogo accertare se l'istituzione stessa di un ordine giornalistico
e l'obbligatorietà della iscrizione nell'albo non costituiscano di per sè una
violazione della sfera di libertà di chi al giornalismo voglia
professionalmente dedicarsi.
La Corte ritiene che a tale interrogativo si debba dare una risposta negativa.
Chi tenga presente il complesso mondo della stampa nel quale il giornalista si
trova ad operare o consideri che il carattere privato delle imprese editoriali
ne condiziona le possibilità di lavoro, non può sottovalutare il rischio al
quale è esposto la sua libertà nè può negare la necessità di misure e di
strumenti a salvaguardarla.
Per la decisione della presente questione - alla quale, per quanto si è detto
al n. 3, resta estranea la rilevanza degli ulteriori profili di pubblico
interesse (fra i quali quello inerente all'osservanza dei canoni della
deontologia professionale) soddisfatti dalla legge - è in vista di tale finalità
che va valutata la funzione che l'ordine può svolgere. Il fatto che il
giornalista esplica la sua attività divenendo parte di un rapporto di lavoro
subordinato non rivela la superfluità di un apparato che secondo l'avviso della
difesa del Longhitano si giustificherebbe solo in presenza di una libera
professione, tale il senso tradizionale. Quella circostanza, al contrario, mette
in risalto l'opportunità che i giornalisti vengano associati in un organismo
che, nei confronti del contrapposto potere economico dei datori di lavoro, possa
contribuire a garantire il rispetto della loro personalità e, quindi, della
loro libertà: compito, questo, che supera di gran lunga la tutela sindacale dei
diritti della categoria e che perciò può essere assolto solo da un ordine a
struttura democratica che con i suoi poteri di ente pubblico vigili, nei
confronti di tutti e nell'interesse della collettività, sulla rigorosa
osservanza di quella dignità professionale che si traduce, anzitutto e
soprattutto, nel non abdicare mai alla libertà di informazione e di critica e
nel non cedere a sollecitazioni che possano comprometterla.
Si deve tuttavia ribadire che questa conclusione positiva è valida solo se le
norme che disciplinano l'ordine assicurino a tutti il diritto di accedervi e non
attribuiscano ai suoi organi poteri di tale ampiezza da costituire minaccia alla
libertà dei soggetti. E in questa ulteriore direzione va ora rivolta l'indagine
affidata alla Corte.
6. Il divieto posto nell'art. 45, come si è detto, condiziona all'iscrizione
nell'albo il legittimo esercizio della professione giornalistica, ed esso, a
causa del disposto contenuto nell'art. 36, si risolve in un divieto assoluto per
gli stranieri che siano cittadini di uno Stato che non pratichi il trattamento
di reciprocità. Da ciò scaturisce la necessità di accertare se esso non sia
in contrasto con l'art. 21 della Costituzione che a tutti, e non ai soli
cittadini, garantisce il fondamentale diritto di esprimere liberamente e con
ogni mezzo il proprio pensiero.
La Corte - anche richiamando quanto esposto al n. 4 - ritiene che, in sè
considerato, il presupposto del trattamento di reciprocità per l'accesso alla
professione giornalistica non sia illegittimamente stabilito, e ciò perchè è
ragionevole che in tanto lo straniero sia ammesso ad un'attività lavorativa in
quanto al cittadino italiano venga assicurata una pari possibilità nello Stato
al quale il primo appartiene. Questa giustificazione, però, non può estendersi
all'ipotesi dello straniero che sia cittadino di uno Stato che non garantisca
l'effettivo esercizio delle libertà democratiche e, quindi, della più eminente
manifestazione di queste. In tal caso, atteso che ad un regime siffatto può
essere connaturale l'esclusione del non cittadino dalla professione
giornalistica, il presupposto di reciprocità rischia di tradursi in una grave
menomazione della libertà di quei soggetti ai quali la Costituzione - art. 10,
terzo comma - ha voluto offrire asilo politico e che devono poter godere almeno
in Italia di tutti quei fondamentali diritti democratici che non siano
strettamente inerenti allo "status civitatis".
Limitatamente a questa parte, dunque, l'art. 45 deve essere dichiarato
costituzionalmente illegittimo.
7. Passando all'esame delle norme che disciplinano l'accesso all'albo, devono
essere presi in considerazione gli artt. 29, 33, 34 e 35 della legge, che
formano oggetto dell'impugnativa ritualmente proposta dal Pretore di Catania.
Ad avviso della Corte, i dubbi di costituzionalità manifestati dal giudice
"a quo" non appaiono fondati.
L'art. 29 richiede per l'iscrizione nell'elenco dei professionisti, fra l'altro,
l'iscrizione nel registro dei praticanti e l'esercizio della pratica per almeno
diciotto mesi: dal combinato disposto di questa norma e degli artt. 33 e 34
discende, secondo il Pretore, che l'accesso al registro dei praticanti e,
mediatamente, all'albo è rimesso alla completa discrezionalità degli editori,
dei direttori e degli altri giornalisti già iscritti. La Corte osserva che, se
è vero che ove il soggetto interessato non trovi un giornale che lo assuma come
praticante egli non potrà mai intraprendere la carriera giornalistica, è
altrettanto vero che neppure il giornalista iscritto può svolgere la sua
attività professionale se non trova un editore disposto ad assumerlo: il che
dimostra che ci si trova di fronte a conseguenze che non derivano dalla legge in
esame, ma dalla struttura privatistica delle imprese editoriali, nell'ambito
della quale la non discriminazione può essere assicurata soltanto dalla
concorrenza della molteplicità delle iniziative giornalistiche.
Neppure può dirsi che il secondo comma dell'art. 34, in quanto richiede che lo
svolgimento della pratica sia comprovata da una dichiarazione motivata del
direttore del giornale, all'arbitrio di questi rimetta la valutazione di un
presupposto per l'iscrizione nell'elenco dei giornalisti. In effetti, poichè
non risulta che l'ordine abbia il potere di esprimere un giudizio di
ammissibilità basato sull'apprezzamento del modo in cui l'interessato ha
esercitato la pratica, si deve concludere che la motivazione del direttore deve
avere ad oggetto solo gli elementi formali del rapporto (durata, continuità) e
non può mai tradursi in un sindacato sul pensiero espresso dal praticante.
Non si vede, infine, in che modo il Consiglio dell'ordine possa esercitare
poteri arbitrari in ordine all'iscrizione nell'albo: chiamato a verificare la
sussistenza di elementi tassativamente indicati dalla legge ed a prendere atto
del giudizio positivo delle prove di esame predisposte per un accertamento
tecnico, il Consiglio non può neppure liberamente valutare la buona condotta
(art. 31, secondo comma) del richiedente, ma deve accertarla sulla base di
fatti, secondo canoni elaborati in base ad una consolidata tradizione e con
l'esclusione di ogni apprezzamento di atteggiamenti che costituiscano
estrinsecazioni delle libertà garantite dalla Costituzione. Val la pena di
aggiungere che la legge impone che i provvedimenti di rigetto della domanda
siano motivati (art. 30) e predispone su di essi il controllo giurisdizionale
(art. 63), assicurando in tal modo la repressione di ogni abuso.
Del pari non fondata è la questione relativa al primo comma dell'art. 35,
impugnato nella parte in cui stabilisce che al fine dell'iscrizione nell'elenco
dei pubblicisti il richiedente deve offrire la dimostrazione di aver svolto
attività retribuita da almeno due anni. Il timore espresso dal giudice "a
quo" che questa norma consenta un sindacato sulle pubblicazioni non ha
ragione di essere, perchè la certificazione dei direttori e la esibizione degli
scritti sono elementi richiesti solo al fine di consentire che venga accertato
se l'attività sia stata esercitata nè occasionalmente nè gratuitamente e per
il tempo richiesto dalla legge, e non anche allo scopo di imporre o di
permettere una valutazione di merito capace di risolversi, come afferma
l'ordinanza, in "una forma larvata di censura ideologica".
8. Poichè l'ordinanza denunzia che l'obbligatorietà dell'iscrizione nell'albo,
sancita dal denunziato art. 45, rimette alla piena "discrezionalità
altrui" l'esercizio del diritto riconosciuto dall'art. 21 della
Costituzione, con conseguente violazione anche dell'art. 3, la Corte non può
sottrarsi al compito di esaminare altre disposizioni della legge che possano
incidere sul diritto all'iscrizione nell'albo, e ciò non per esercitare un
controllo su norme che, per quanto si è detto al n. 2, non sono state
ritualmente impugnate, ma solo per accertare se il loro contenuto sia tale da
determinare l'illegittimità dell'art. 45.
Sotto questo profilo ed a questi limitati effetti vengono in esame l'art. 24,
che attribuisce al Ministro per la grazia e giustizia l'alta sorveglianza sui
Consigli dell'ordine, e le disposizioni che conferiscono ai Consigli poteri
disciplinari che sull'iscrizione all'albo possono incidere in via temporanea
(art. 54) o definitiva (art. 55).
La Corte osserva che il potere del Ministro, corollario del pubblico interesse
al regolare funzionamento dei Consigli, ha per contenuto i provvedimenti
indicati nel secondo e nel terzo comma dello stesso art. 24, sicchè nessuna
ingerenza è consentita all'esecutivo sulla attività amministrativa relativa
agli iscritti, salva la implicita possibilità di segnalare fatti che ai sensi
dell'art. 48 possano giustificare il promovimento dell'azione disciplinare: nel
che non si può riscontrare, in verità, nessun rischio di abuso.
La Corte ritiene, del pari, che i poteri disciplinari conferiti ai Consigli non
siano tali da compromettere la libertà degli iscritti. Due elementi
fondamentali vanno tenuti ben presenti: la struttura democratica dei Consigli,
che di per sè rappresenta una garanzia istituzionale non certo assicurata dalla
legge precedentemente in vigore (D.L.Lt. 23 ottobre 1944, n. 302), in base alla
quale la tenuta degli albi e la disciplina degli iscritti sono state affidate
per circa venti anni ad un organo di nomina governativa; e la possibilità del
ricorso al Consiglio nazionale ed il successivo esperimento dell'azione
giudiziaria nei vari gradi di giurisdizione. L'uno e l'altro concorrono
sicuramente ad impedire che l'iscritto sia colpito da provvedimenti arbitrari.
Essi, tuttavia, non sarebbero sufficienti a raggiungere tale scopo, se la legge
stessa prevedesse, sia pure implicitamente, una responsabilità del giornalista
a causa del contenuto dei suoi scritti e ammettesse una corrispondente
possibilità di sanzione, perchè in tal caso la libertà riconosciuta dall'art.
21 sarebbe messa in pericolo e l'art. 45 - norma di chiusura dell'intero
ordinamento giornalistico - risulterebbe illegittimo. Ma la legge non consente
affatto una qualsiasi forma di sindacato di tale natura. Se la definizione degli
illeciti disciplinari, come è inevitabile, non si articola in una previsione di
fattispecie tipiche, bisogna pur considerare che la materia trova un preciso
limite nel principio fondamentale enunciato dalla stessa legge nell'art. 2. Se
la libertà di informazione e di critica è insopprimibile, bisogna convenire
che quel precetto, più che il contenuto di un semplice diritto, descrive la
funzione stessa del libero giornalista: è il venir meno ad essa, giammai
l'esercitarla, che può compromettere quel decoro e quella dignità sui quali
l'ordine è chiamato a vigilare.
9. Con ciò la Corte ha esaurito l'esame delle questioni ritualmente proposte
dal Pretore di Catania. Non può essere affrontato, infatti, un ulteriore
problema sul quale l'ordinanza di rinvio si è soffermata, se cioè la
disciplina introdotta dalla legge limiti, ed in quale misura, il diritto di
tutti di dar vita ad un giornale e di esprimere con questo mezzo il proprio
pensiero. A questa tematica l'art. 45 è del tutto estraneo, perchè gli oneri
che in essa verrebbero in discussione non discendono dall'obbligatorietà
dell'albo, ma sono autonomamente posti dagli artt. 46 e 47: da disposizioni,
dunque, che, per quanto si è detto al n. 2, restano fuori dell'oggetto del
presente giudizio.
10. Il Tribunale di Torino denuncia l'illegittimità costituzionale, per
violazione degli artt. 102 e 108 della Costituzione, del terzo comma dell'art.
63 della stessa legge, a tenore del quale presso il Tribunale e la Corte di
appello competenti a decidere sull'azione promossa contro le deliberazioni del
Consiglio nazionale dell'ordine il collegio viene integrato da un giornalista
professionista e da un pubblicista, nominati in numero doppio all'inizio di ogni
anno dal Presidente della Corte di appello su designazione del Consiglio stesso.
Non tutti i rilievi che l'ordinanza espone con espresso richiamo ai principi
affermati dalla Corte nella sentenza n. 108 del 1962 trovano esatto riscontro
nel caso in esame. Tanto è a dirsi sia del requisito della idoneità dei due
membri del Collegio, assicurata dalla circostanza che deve trattarsi di
giornalisti professionisti e di pubblicisti tali qualificati in base alle norme
della stessa legge, sia della possibilità di rendere operanti le disposizioni
relative alla astensione e ricusazione del giudice, sufficientemente garantita
dalla nomina in numero doppio. La questione risulta invece fondata sotto il
profilo che il meccanismo predisposto dalla legge non è tale da conferire al
giudice piena indipendenza nei confronti del Consiglio dal quale sostanzialmente
egli deriva la sua nomina. Giova in proposito tener presente che all'esame del
Tribunale e della Corte di appello, nella speciale composizione descritta,
vengono portate (artt. 62 e 63) le impugnazioni promosse contro le deliberazioni
di quello stesso organo che è competente alla designazione dei due giudici
estranei alla magistratura. Vero è che siffatta circostanza, come si ricava
dalla giurisprudenza della Corte (sentenza n. 1 del 1967), di per sè sola non
costituirebbe ragione di illegittimità costituzionale: tuttavia sarebbe stato
necessario che la legge impedisse ogni forma di responsabilità, anche
indiretta, nei confronti del Consiglio. Questa fondamentale garanzia, essenziale
per il rispetto del principio di indipendenza, non è invece assicurata, perchè
la brevità del termine di durata nell'ufficio e la possibilità di una
rinnovata designazione degli stessi soggetti non escludono che il Consiglio
possa periodicamente esercitare un implicito sindacato sul modo col quale è
stata amministrata la giustizia in casi nei quali era in gioco un suo diretto
interesse. Perciò è da riconoscere che la norma impugnata contrasta con l'art.
108, secondo comma, della Costituzione.
Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
a) Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 45 della legge 3
febbraio 1963, n. 69, relativa all'ordinamento della professione giornalistica,
limitatamente alla sua applicabilità allo straniero al quale sia impedito nel
paese di appartenenza l'effettivo esercizio delle libertà democratiche
garantite dalla Costituzione italiana;
b) Dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 63, comma terzo, della
stessa legge;
c) Dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale concernenti
gli artt. 29, 33, 34 e 35 sollevate dall'ordinanza 5 giugno 1967 del Pretore di
Catania in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione;
d) Dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli
artt. 24, 28 cpv., 46 e 47, 51, lett. c) e d), 54 e 55 sollevate dalla stessa
ordinanza in riferimento agli artt. 3 , 21, 18, 19, 33, 39, 49 della
Costituzione.
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