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Le regole dell'internet

Non è solo il “caso Google”

di Giancarlo Livraghi* – 04.12.06

 

(di nuovo un’onda perversa di repressione e censura)

Nell’ultima settimana del novembre 2006 c’è stato, per alcuni giorni, un ampio dibattito su problemi di violenza, che non riguardano solo giovani e adolescenti – ma è comprensibile (anche se non sempre ragionevole) che si dedichi una particolare attenzione a quelle situazioni che coinvolgono persone “minorenni”. Spesso come vittime – ma anche, in troppi casi, come responsabili o complici delle violenze.
Non è facile capire se si tratti di un aumento di questi fenomeni o di una più diffusa constatazione della loro esistenza. Ma è evidente che non sono “fatti nuovi”. Che si stiano diffondendo di più, e aggravando, è solo un’ipotesi. Che il problema esista da molto tempo, e continui con una mescolanza di malcostume “vecchio” e “nuovo” – è una triste, e grave, realtà.

Che se ne prenda più diffusamente coscienza è, ovviamente, un bene. Ma non basta. Ed è importante capire (fuori dalla frettolosa confusione delle cronache di pochi giorni) quali ragionamenti e azioni possono essere utili – e quali, invece, non solo sono inefficaci, ma possono avere conseguenze molto negative.
Sembra si stia esaurendo, dopo qualche giorno di “rumore”, l’onda di notizie, commenti e proposte che è seguita a un particolare orribile episodio (vedi il comunicato diffuso da ALCEI il 26 novembre 2006). Il fatto è che alcuni sciagurati adolescenti hanno aggredito e percosso una persona che ha difficoltà a difendersi. Hanno anche filmato la loro “prodezza” – e messo il video online.

Che un tale episodio abbia suscitato una diffusa indignazione è evidente. Ma il modo in cui l’argomento è stato trattato suscita molte perplessità. E alcune delle “soluzioni” proposte sono peggio del male che fingono di voler risolvere.
Molte delle cronache contengono informazioni sbagliate (per esempio la vittima soffre di “autismo” – non, come qualcuno ha detto e molti hanno ciecamente ripetuto, della “sindrome di Down”). Questo ovviamente non cambia la natura del problema per quanto riguarda i comportamenti violenti e la perversa idea di vantarsene, ma dimostra con quanta superficialità si diffondano notizie di ogni specie.
Non tutti i commenti sono sbagliati. Si sono pubblicate osservazioni ragionevoli e ben concepite sul problema della violenza (non solo giovanile), sulla responsabilità dei genitori e degli educatori, sulla complessità della situazione culturale e sociale, eccetera. Tutte cose che non si risolvono in pochi giorni, che richiedono azioni meditate e continue, che non sono “nate improvvisamente” ma hanno radici estese nel tempo.

Occorre anche capire che quell’episodio, particolarmente vistoso, non è un “caso isolato”. Ci sono altre vicende di varia specie, non meno gravi, di cui solo alcune sono “salite all’onore delle cronache”. Una breve fiammata di interesse, che probabilmente sarà seguita da un nuovo dimenticatoio fino alla prossima occasione che “fa notizia”, non risolve alcun problema – ma tende a suscitare ogni sorta di proposte estemporanee, non solo inutili, ma spesso anche nocive.

In mezzo a un mare di chiacchiere confuse e inconcludenti, c’è chi fa proposte sensate. Per esempio un gruppo di giovani ha messo in piedi un’organizzazione per dialogare online sulla violenza nelle scuole e offrire aiuto alle vittime e alle loro famiglie. Solo il tempo, i fatti e risultati ci diranno quanto sarà concretamente efficace questo genere di iniziative, ma intanto il loro valore sta nella qualità delle intenzioni e la chiarezza della direzione che indicano: capire, educare, aiutare, per quanto possibile prevenire, è più utile e più importante che reprimere.

Nel caso specifico di cui si parla in questi giorni, l’idea perversa di filmare il misfatto, e metterlo online, ha avuto un effetto involontariamente positivo. È servita a identificare e perseguire i colpevoli. Ciò non vuol dire, ovviamente, che si debba incoraggiare la diffusione di materiali di quella specie. Ma è probabile che, viste le conseguenze, non siano molti i malfattori a seguire quell’esempio (stupido quanto perverso). Cioè che le violenze continuino, ma rimangano nascoste. Con il rischio, purtroppo molto reale, che si consideri inesistente, o trascurabile, ciò che “non si vede”. Molte iniziative, proposte in questa occasione come in tante altre, tendono non a risolvere i problemi, ma a “nasconderli sotto il tappeto”.

Ci sono parecchie, gravi e diffuse, forme di ipocrisia. Il concetto di “protezione dei minori” è ambiguo, confuso, spesso strumentalizzato. Uno dei problemi di base è che la definizione non è chiara. Ci possono essere situazioni difficili a ogni età, ci sono vittime e colpevoli in una grande varietà di circostanze. Un bambino di quattro anni è molto diverso uno di dieci. Un adolescente di tredici anni non è uguale a uno di diciassette. E comunque nessuna individualità reale si colloca nella “media statistica”. Definire e classificare le persone, a qualsiasi età, per categorie che si presumono “omogenee” vuol dire non capirle e non saperle ascoltare.

Violenze, sfruttamento e persecuzione sono particolarmente gravi quando si tratta di “minorenni”, ma non per questo diventano giustificabili quando le vittime sono “adulte”.
Da un’infinità di tempo si discute, per esempio, su “minori” e televisione. Tutti sanno che lasciare i bambini incontrollati davanti a un televisore, senza mai badare a che cosa guardano e come lo capiscono, è un errore pericoloso. È altrettanto ovvio che, nel caso di adolescenti, “vietare” è inutile e può essere “controproducente” (ciò che si cerca di proibire è spesso cercato per il solo motivo che è “vietato” – e così il divieto si trasforma in un incentivo).

Ma si continua a credere (o a fingere) che possano essere utili provvedimenti semplicistici e imposti “dall’alto”. Come le cosiddette “fasce protette” che servono a proteggere le emittenti – non gli spettatori (di qualsiasi età) che possono essere confusi, o male orientati, da informazioni e spettacoli se li “subiscono” senza sufficienti capacità critiche. E, ovviamente, il problema non riguarda solo la televisione, ma tutto l’insieme dei sistemi di informazione e comunicazione.

(Vedi l’analisi delle risorse di informazione e comunicazione,
basata sulle ricerche del Censis, pubblicata nel 2006,
e altri studi sull’argomento che si trovano nella sezione dati).

Il problema è noto. Le discussioni sono infinite. Le soluzioni sono scarse o del tutto mancanti. Occorre un lavoro molto più approfondito, continuo nel tempo, sulle basi della cultura e della società. Più ci si perde in clamori temporanei e in provvedimenti semplicistici, più ci si allontana da ogni possibilità di reale miglioramento della situazione.

“Ciò premesso” – ritorniamo al tema specifico. Si è ampiamente glorificata, con scarsa verifica critica, la diffusione di strumenti sempre più complessi e con molteplicità di funzioni. Con la telefonia cellulare, il computer, l’internet, eccetera, si mette a disposizione di (potenzialmente) “tutti” la capacità non solo di dire e scrivere, ma anche di usare immagini, musica, filmati. Questo (che piaccia o no a chi è abituato a situazioni di privilegio) è un bene per tutti. Ma se per milioni di persone è uno strumento di libertà e di attività culturale in tutti i suoi aspetti, dai più banali e talvolta divertenti ai più sostanziosi e interessanti, è inevitabile che nelle mani di alcuni diventi una “arma impropria”.

In alcuni casi (per esempio i telefoni cellulari più complessi) c’è una particolare diffusione fra i giovani – compresi adolescenti e anche bambini. Un tardivo allarme si preoccupa delle conseguenze che possono derivare dalle attività di persone “immature”. Ma anche questa è una grossolana e pericolosa semplificazione. Ci possono essere “malintenzionati” a tutte le età. E nessun provvedimento restrittivo o repressivo può rimediare alla mancanza di una più diffusa preparazione (a tutte le età, dall’infanzia alla vecchiaia) sui modi di difendersi e di non lasciarsi ingannare.

C’è anche un problema più esteso. Il potere della stupidità. Che imperversa dovunque – ovviamente anche in rete. Si possono diffondere fastidiose sciocchezze senza avere “cattive intenzioni”. L’esagerata diffusione di stupidaggini può facilmente portare alla tentazione di vietare, censurare, filtrare – che è ovviamente pericolosa. È più efficace, oltre che più corretto e civile, un percorso meno frettoloso e meno superficiale: lo sviluppo diffuso di capacità critiche, di anticorpi culturali.

È mancato, per decenni, un impegno esteso sulle basi culturali e civili (lasciando prevalere una mal concepita, spesso ostica e sgradevole, “alfabetizzazione” tecnica – oppure una diffusione “spontanea” di capacità, anche elevate, di gestione di aggeggi complessi senza alcuna preparazione sui valori umani e sociali). A quella sciocca incuria ora si pensa di poter rimediare, in modo affrettato e spesso balordo, con l’arma peggiore: la repressione.

Divieti e censure non risolvono il problema. Ma possono servire a nasconderlo – e così evitare la fatica di doverlo affrontare davvero. Basterebbe questo per definire l’ipocrisia e l’inciviltà di quelle iniziative. Ma c’è di peggio. Sono un facile pretesto per giustificare censure, controlli, invasività, eccetera, che hanno tutt’altri obiettivi. Come si è già dimostrato in un’infinità di occasioni.

Ritorniamo all’episodio specifico. Pare che il “video” incriminato sia stato tolto dalla circolazione (prima ancora che ci fosse qualsiasi iniziativa giudiziaria e che la notizia diventasse estesamente “di pubblico dominio”). Ovviamente non c’è motivo di piangere sulla sua scomparsa. Se criminologi o studiosi del malcostume vorranno analizzarlo, probabilmente da qualche parte qualcuno ne ha conservata una copia. E naturalmente nessuno può impedire che di questa spregevole opera d’arte, come di chissà quante altre simili, continui a esserci una diffusione clandestina.

Ma c’è un altro problema – ed è molto serio. Una volta definito il concetto che un gestore di servizi può (o deve) “rimuovere” qualcosa, si è stabilito un principio che si può facilmente estendere a qualsiasi genere di censura.
Quella di cui si è parlato in questi giorni è l’incriminazione di Google. Che è indagata per “corresponsabilità” nella la diffusione di quel filmato (e anche sottoposta a perquisizioni e sequestri). La notorietà del nome ha contribuito a far conoscere e discutere un episodio che non è affatto “isolato”. Non è chiaro se l’indagine riguardi Google come “motore di ricerca” o solo il fatto che qualcuno aveva messo il video su Youtube.
Non ripeto qui ciò che è chiaramente definito nel comunicato ALCEI che ho segnalato all’inizio. Mi limito (per chi non l’avesse ancora letto) a citarne un paragrafo.

Sarebbe palesemente assurdo se (come interpretato in alcuni dibattiti, articoli di giornale e programmi televisivi) si considerasse “responsabile dei contenuti” un motore di ricerca. Ma, anche se il procedimento contro Google si basasse su fatto che ora è proprietaria di Youtube, si tratterebbe di una grave distorsione delle responsabilità e di un ennesimo tentativo di repressione che, da un episodio particolare, si potrebbe facilmente allargare a forme estese di censura.

La percezione del problema si è un po’ diffusa. A qualche iniziale plauso per quella discutibile iniziativa giudiziaria e poliziesca (difficile capire quanto fosse ingenuo o consapevolmente deformato) sono seguite varie perplessità. Per fortuna non tutti sono disposti a lasciar passare, con l’ipocrita pretesto della “protezione dei minori” (o, in generale, dei “più deboli”) un ennesimo tentativo di repressione e censura.

* * *

In questo momento (fine novembre 2006) non sappiamo ancora quale sarà l’esito della procedura giudiziaria. Né sappiamo se e come le insensate dichiarazioni di alcuni politici (di diversi partiti e orientamenti) avranno un seguito in termini di proposte legislative.
Staremo a vedere. Ma, qualunque sia il percorso di questa particolare vicenda, il problema rimane. Anche questa volta, come in tanti casi precedenti, il temporaneo clamore su uno o pochi episodi rischia di spegnersi lasciando il problema nell’abbandono. E non desistono i nemici della libertà di opinione e dei diritti civili, che “sotto mentite spoglie” approfittano di ogni occasione per reprimere, controllare e censurare.

* * *

Mentre alcuni (non solo in Italia) cercano di approfittare dei casi di violenza per reprimere e censurare la rete, altri, in varie parti del mondo, fanno il contrario.
Gli esempi sono tanti. Ce n’è uno che, per una interessante coincidenza, è di questi giorni. Nello stesso periodo in cui da noi infuriano proposte repressive, un’associazione internazionale impegnata sul tema delle violenza contro le donne segnala (anche con esempi concreti) l’importanza di usare la rete come risorsa in favore delle vittime.
Vedi il comunicato (in inglese) diffuso da APC il 27 novembre 2006 – che parla, fra l’altro, di specifiche attività negli Stati Uniti, in India, in Malesia, in Sudafrica e in altri paesi, dove varie forme di collaborazione, informazione e mobilitazione in rete aiutano a combattere violenze e persecuzioni.
In molte situazioni, in giro per il mondo, le iniziative di libertà o di difesa degli oppressi sono contrastate dalla censura e repressione di chi vuole mantenere un perverso status quo. Si rendono conto, i censori di casa nostra, che mentre fingono di essere difensori delle vittime sono alleati e discepoli dei carnefici?

 * gian @ gandalf.it

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