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Pubblica amministrazione e open source

Magnolfi: le innovazioni si fanno con le persone

27.02.07

 

(Intervista di Manlio Cammarata del 13 febbraio 2007)

D. La prima tappa importante nel percorso legislativo sull’uso delle tecnologie nella pubblica amministrazione è stata il decreto legislativo n. 39 del 1993 “Norme in materia di sistemi informativi automatizzati delle amministrazioni pubbliche”. Nel 1997, con il DPR n. 513, è stata la volta della firma digitale, pilastro della dematerializzazione dei documenti e quindi dei processi amministrativi. Nel 2005 il primo tentativo di sistemazione organica della materia, con il “Codice dell’amministrazione digitale”. Oggi, nel 2007, si deve discutere il disegno di legge presentato dal ministro Nicolais. Nel quale si legge, fra l’altro, che le pubbliche amministrazioni devono rendere disponibili “anche per via telematica i moduli ed i formulari validi ad ogni effetto di legge”. In sostanza la stessa disposizione che compariva alla fine del DPR 513/97. Dieci anni sono passati invano?

R. Il processo di innovazione è stato più facile da definire dal punto di vista normativo che da attuare. La pubblica amministrazione oggi presenta un quadro con luci e ombre, molto discontinuo, a macchia di leopardo. Abbiamo i dati del CNIPA, che vanno letti con attenzione perché in alcuni casi sono fondati su autorilevazioni spesso non condotte con le stesse modalità. In sostanza questa è la “fotografia” che ne risulta: sono state introdotte alcune novità, come il protocollo elettronico, che però non sono diventate prassi in tutte le amministrazioni. Abbiamo situazioni in cui le tecnologie si sono sovrapposte all’uso della carta. E’ un doppio canale, il che vuol dire doppi costi, doppie energie e alla fine scarso recupero in termini di efficienza. In molti casi la tecnologia è aggiuntiva e non sostitutiva, perché si sono automatizzati solo dei pezzi, non interi processi o flussi documentali.

D. Perché non ha funzionato?

R. Intanto perché le innovazioni si fanno soprattutto con le persone, non sono sufficienti le tecnologie. Avere unificato i due ministeri, quello per le riforme nella pubblica amministrazione e quello per l’innovazione ci dà un’opportunità in più, perché abbiamo messo insieme tutte le leve di una strategia multilivello. La leva tecnologica, insieme alla leva delle politiche del personale e con quella della semplificazione amministrativa comincia a fare massa critica. Questo ci consente di dire: benissimo, la stagioni delle sperimentazioni è stata ampia, variegata, anche piena di successi, di idee... creativa! Adesso si deve cambiare.
Oggi abbiamo cento fiori, bisogna passare dai cento fiori “al tappeto”, ossia a un set comune di servizi che tutte le amministrazioni devono essere in grado di offrire. Bisogna passare dalle sperimentazione all’implementazione, alla messa a regime, e questo vuol dire anche che è finita la stagione della moral suasion. Quando io vado in giro per l’Europa mi accorgo di essere portatrice di una cornice normativa fra le più avanzate al mondo. Quando poi mi trovo di fronte alla pubblica amministrazione reale, da cittadina, mi accorgo che c’è un enorme vuoto da colmare tra l’impianto normativo e la realtà.

D. Ma quali possono essere gli strumenti effettivi per colmare questo vuoto? E’ difficile immaginare misure coercitive, anche se nel DDL Nicolais, fra l’altro, si prevede la nomina di un commissario ad acta se una pubblica amministrazione non adotta il protocollo informatico.

R. Se il risultato indicato dalle leggi (perché ormai queste sono leggi dello Stato) non si raggiunge, se, ad esempio, non si automatizza il flusso documentale, con la piena disponibilità dei dati che è il presupposto dell’interoperabilità, tutto questo si ripercuote sulla valutazione del lavoro del dirigente. Quindi bisogna introdurre indicatori di qualità che vengano poi ad agire sulle retribuzioni di risultato. Ci vuole un cambio di passo. Noi cerchiamo anche di recuperare a livello di governance il gap che deriva dalla frammentazione del sistema, che è un altro dei motivi di parziale successo.
I ministeri sono ognuno un mondo a parte, con sistemi che non sempre dialogano fra loro, perché discendono da scelte tecnologiche compiute in momenti diversi da persone diverse e con criteri diversi. Poi non ci sono solo i ministeri, c’è tutto il mondo degli enti pubblici e c’è tutto il mondo della pubblica amministrazione locale. Gli attori sono veramente molti. Allora si deve incominciare anche ad avere politiche di sistema. Quello che è mancato finora è una governance di sistema. Questo è il motivo per cui ho insediato un organismo che finora non c’era, previsto dal Codice dell’amministrazione digitale: la “conferenza permanente per l’innovazione tecnologica”, che è simile a quella che nel Regno Unito si chiama Digital Task Force, cioè il livello tecnico “alto” in cui siedono i responsabili dei centri di competenza dei ministeri.

D. Prenderà il posto di quello che nella passata legislatura era il comitato dei ministri per la società dell’informazione?

R. Ci sarà ancora il comitato dei ministri, però per gli obiettivi di Lisbona, cioè per la società dell’informazione in senso lato. Noi, invece, con questa conferenza permanente dobbiamo creare la cabina di regia della pubblica amministrazione centrale, sperando che poi i comportamenti virtuosi scendano a cascata nelle PA locali. Nella conferenza permanente ci devono essere i responsabili delle scelte tecnologiche e organizzative di ciascun ministero. I centri di competenza sono questo, non sono quelli che comperano i computer, ma quelli che possono far entrare le tecnologie nel cuore dei processi amministrativi, per colmare l’enorme divario tra la normativa e la realtà.

D. Le difficoltà di applicazione della normativa forse derivano anche dalla difficoltà di interpretare norme poco chiare o contraddittorie, come quelle che regolano le firme elettroniche nel codice dell’amministrazione digitale, frutto anche di grossolani errori nella traduzione della direttiva europea. E’ prevista una revisione di queste norme?

R. Se sarà necessario costituiremo un gruppo di lavoro sulla questione.

Il processo telematico

D. Lei parlava, poco fa, del “doppio canale” che si crea con l’incompleta adozione delle tecnologie: il digitale si sovrappone alla carta, raddoppiando i problemi. Ma c’è una normativa, quella sul cosiddetto processo telematico, che del doppio canale fa la regola. Aggravando ulteriormente la situazione delle cancellerie, già oggi al collasso. Il protocollo che è stato siglato con il ministero della giustizia non rischia di restare un elenco di buone intenzioni?

R. Dopo cinque anni di Commissione giustizia ho maturato la convinzione che il problema non è nel rito, che si può sempre migliorare, ma è un gigantesco problema organizzativo e di deresponsabilizzazione del sistema, dove nessuno risponde delle proprie azioni. La giustizia è una gigantesca rete di flussi informativi ormai al collasso. Nessuno viene più a investire in un Paese in cui ci vogliono dieci anni per recuperare un credito o otto anni per divorziare (perché ci sono anche i diritti dei cittadini, non solo quelli delle imprese).
Nel protocollo col ministero della giustizia abbiamo tenuto a dire che l’applicazione delle nuove tecnologie non è la panacea. E’ vero che non ci sono neppure le tecnologie, perché i tribunali hanno i computer grazie ai comuni. Però il problema è anche d’altro tipo, manca la volontà di entrare nei processi amministrativi. Ma ormai la convinzione comune, di tutti gli operatori, è che bisogna cambiare. Questo nostro protocollo è stato accolto da un lato con favore, ma dall’altro con molto scetticismo: gli operatori della giustizia hanno piena consapevolezza dei grandi problemi di questo settore. Si tratta comunque di un primo, importante passo per dare impulso a un processo di ammodernamento del sistema-giustizia più ampio.

D. Resta il fatto che le regole tecniche sembrano ignorare la realtà degli uffici.

R. Se si devono modificare le norme tecniche, lo facciamo. Da parte nostra c’è tutta la disponibilità. Ora si tratta di capire come sono andate le sperimentazioni, lunghissime, perché il processo telematico è partito nel 2001, quando c’era il ministro Fassino. In tutti questi anni si sono realizzate solo sette sperimentazioni in altrettanti tribunali. Oltre ad analizzare i risultati delle sperimentazioni, dobbiamo anche dare il buon esempio. Incominci la Corte dei conti a dire che a partire da una certa data tutta la documentazione dovrà essere trasmessa su supporto elettronico e non più su cartaceo.

D. Lo ha già fatto il Ministero dell’economia, e ci è riuscito.

R. Se la Corte dei conti chiede il fascicolo cartaceo, è chiaro che il dirigente pubblico, sarà spinto ad agire sul doppio canale. Quindi, secondo me, occorrerebbe un’azione di indirizzo “dall’alto”. Penso che alla fine da un sistema di questo genere non solo i cittadini, ma anche gli operatori sarebbero avvantaggiati. Non solo l’avvocato, che può consultare il calendario delle udienze o il fascicolo on line, ma anche il lavoro del giudice di pace verrebbe semplificato. Secondo me i tempi sono ormai maturi.
Dal lavoro che ha incominciato a fare il “tavolo” con il ministero della giustizia, paradossalmente sembra più semplice ottenere risultati nell’ambito del penale che del civile. Sarebbe un peccato, perché il civile è la “giustizia di prossimità”, quella più vicina ai cittadini.

Le carte elettroniche: CIE, CNS...

D. L’accesso on line ai servizi della pubblica amministrazione richiama un’altra questione: quella del riconoscimento del soggetto che accede a un sistema telematico, con la confusione tra carta d’identità elettronica, carta (cosiddetta...) nazionale dei servizi e via elencando.

R. Su questo punto credo che abbiamo fatto un grande passo avanti, perché nel tavolo interministeriale sulla CIE (del quale facciamo parte insieme al ministero dell’interno, al ministero degli affari regionali e al ministero dell’economia) siamo riusciti a convincere che insieme al decreto che definisce i costi e le modalità di distribuzione della carta si devono anche riscrivere le regole tecniche, in modo tale che le due carte siano perfettamente interoperabili, anche affinché gli aspetti della sicurezza, che sono importantissimi, si concilino con l’idea della carta come strumento della modernizzazione del Paese, come strumento unitario per l’accesso ai servizi.

D. Dunque resterebbero le due carte? Non si era detto di unificarle in un solo strumento?

R. Penso che noi abbiamo il dovere morale di convergere su un solo strumento perché questa concorrenza tra strumenti diversi è durata troppi anni e comporta un dispendio di risorse e di energie e genera confusione tra i cittadini. La carta d’identità da noi è lo strumento di identificazione per eccellenza, c’è un rapporto per quella che è la storia del nostro Paese (diversamente dal regno Unito e da altri paesi); c’è un rapporto di confidenza con questo strumento, per cui credo che sia giusto tentare fino in fondo la convergenza. Abbiamo ottenuto la costituzione di un comitato tecnico sulle regole della CIE, in modo che tutti i problemi possano essere affrontati in maniera dinamica. In questo modo non tutti i problemi sono risolti, perché c’è un aspetto di fondo che a me sta molto a cuore: l’utilizzo da casa da parte dei cittadini. Bisognerà affrontare la discussione su come rendere disponibili i lettori e su come i computer si dovranno attrezzare con software di seconda generazione Anche su questo tema occorre mettere in atto una strategia di governance coordinata, che contemperi le esigenze dei differenti attori che si occupano di sicurezza.

La sicurezza informatica

D. Con la parola “sicurezza” si introduce un altro tema di grande importanza. Nello scorso dicembre l’internet italiana ha sperimentato alcuni giorni di blocco su vasta scala delle connessioni, dovuto – sembra – ad attacchi informatici su vasta scala. Poche settimane fa, al Forum di Davos un esperto del calibro di Vinton Cerf ha denunciato il rischio di un collasso globale dovuto ad attacchi informatici resi possibili dalla scarsa sicurezza dei sistemi. Secondo Cerf ci sarebbero nel mondo centinaia di migliaia di personal computer infettati che, all’insaputa degli utenti, potrebbero scatenare attacchi devastanti.
In Italia manca una struttura di prevenzione e pronto intervento. Nella passata legislatura non si era andati più in là della costituzione di un comitato, presieduto da Claudio Manganelli del CNIPA, che aveva prodotto un interessante documento. Non crede che servirebbe qualcosa di più incisivo?

R. La difficoltà di questi temi è che sono temi globali, le politiche nazionali non sono la risposta a questi rischi. Io sono stata al Forum di Atene, in cui il tema della sicurezza era uno dei quattro dettati da Kofi Annan, proprio perché è una questione molto seria. Per la nostra parte il punto è ristabilire un nucleo, una task force che discuta di questo e che sia presente negli organismi internazionali. Fra l’altro il ministro Nicolais ci tiene moltissimo a rinforzare la presenza italiana in tutti gli organismi internazionali. Secondo me è una cosa che si deve fare, incominciando dalla cabina di regia che si è costituita fra noi, il ministero delle comunicazioni e il ministero degli affari regionali e che ha incominciato a lavorare sui temi delle infrastrutture. Il nostro obiettivo di legislatura è la copertura del territorio nazionale al cento per cento con la banda larga. Questa è una priorità programmatica, che è resa più chiara anche dall’apertura sul cosiddetto “mix tecnologico” di Wi-Fi, Wi-Max e così via. E’ chiaro che un Paese sempre più connesso, perché sono più di venti milioni i cittadini connessi a Internet, deve tener conto del problema della sicurezza delle reti.

Diritto d’autore e open source

D. Passiamo a un altro problema: la regolamentazione del diritto d’autore, stretta fra le opportunità offerte dalla rete e le pressioni degli editori, che chiedono (e ottengono) continui “giri di vite”. Il Sole 24 Ore ha aperto un dibattito sul copyright: qual è la sua opinione?

R. Il fatto di leggere in prima pagina sul maggior quotidiano economico un articolo che dice “basta col copyright e abolite la SIAE” mi ha fatto molta impressione. E’ chiaro che le norme sono da rivedere, perché le tecnologie cambiano tutto, soprattutto nel Web di seconda generazione, dove i cittadini possono diventare anche autori, non ci sono più intermediari o distributori; si va direttamente su siti come Youtube, mentre il modello Wiki in qualche modo ridefinisce anche il principio della paternità intellettuale. La sfida è enorme, perché se andiamo a costruire la società della conoscenza avremo una grande massa di lavoratori della conoscenza. Occorre quindi lavorare per comprendere come ridefinire sia la tutela della proprietà intellettuale, sia il copyrigth, ossia il diritto di sfruttamento economico delle opere.


D. Legato a quello del copyright c’è anche il problema della scelta tra software proprietario e open source. Il precedente governo aveva emanato un direttiva, nella legge finanziaria si affronta il problema in maniera concreta. Che cosa dobbiamo aspettarci su questo punto?

R. Abbiamo inserito in finanziaria proprio questo tema, per la prima volta in maniera non ideologica, nel senso che si dice che nell’esame dei progetti che saranno finanziati per la società dell’informazione saranno prioritariamente considerati quelli che utilizzano piattaforme open source. A me quello che interessa è la possibilità di trasferire risorse dalle licenze d’uso alla formazione delle competenze, che poi sono gli investimenti più duraturi. I problemi dell’innovazione che lei citava all’inizio, descrivendo il lungo percorso normativo, risentono soprattutto del fatto che le tecnologie ci sono, le risorse ci sono, le norme non mancano. Il problema sono le persone. Per cui tutto ciò che consente di trasferire energie e risorse sul capitale umano secondo me è estremamente positivo.
Il ministro precedente aveva insediato una commissione, che ha lavorato e ha fatto alla fine una relazione da cui è scaturita la “direttiva Stanca sull’open source”. Sono passati un paio d’anni e il CNIPA ha continuato a gestire un osservatorio. Io ho pensato che sarebbe utile reinsediare una commissione, che in sostanza dovrebbe essere la comunità di coloro che hanno dato un contributo, sono stati i pionieri, hanno fatto le esperienze più interessanti nei vari settori. Lavoreranno on line per sei mesi e produrranno un documento finale per capire se quella direttiva è ancora valida, se va aggiornata, se è stata applicata. La finanziaria ci impone anche di realizzare il market place, il sito frutto del lavoro dell’osservatorio del CNIPA, in cui le soluzioni open source diventano patrimonio comune. Il bello è che ormai tutti parlano di standard aperti, mentre qualche anno fa c’era il rifiuto di questi temi, sembrava che parlarne fosse cosa da comunisti...

 

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