A proposito di data retention - Ambiguità e pericoli
della prevenzione
Comunicato di ALCEI - 24 gennaio 2004
C'è diffusa preoccupazione per le conseguenze del decreto legge 534 (emanato dal governo italiano il 24 dicembre 2003) che stabilisce, a carico dei fornitori di servizi di comunicazione elettronica, l'obbligo di conservazione fino a cinque anni dei dati di traffico dei servizi telefonici e internet trattati per finalità di fatturazione, ma utilizzabili per ispezione da parte di magistrati inquirenti, forze di polizia o altre funzioni di stato.
Il problema era stato segnalato da ALCEI
nel suo comunicato del 23 dicembre 2003 La
conservazione indiscriminata del traffico
internet non serve ad arrestare i criminali e minaccia la
libertà di imprese e cittadini
- e ha poi dato luogo a vari rilievi e molteplici
discussioni non solo in Italia, ma anche in ambito
internazionale, dove il tema della data retention è
oggetto da tempo di dibattiti e polemiche, per lo più
in relazione a problemi di privacy.
Il tema merita un ulteriore approfondimento - e va
collocato in una prospettiva più ampia, di cui
questo è solo un episodio.
Quel decreto legge è nato, quasi casualmente,
per l'affrettata decisione di modificare le conseguenze di un precedente
decreto legislativo (il 196 del luglio 2003 - Testo Unico sul
trattamento dei dati personali) che, per motivi di privacy,
aveva disposto (peraltro con varie eccezioni) l'eliminazione
dei dati archiviati dopo trenta mesi.
Il testo del nuovo decreto legge è confuso, disordinato
e poco chiaro - ma nella sostanza non modifica lo stato di fatto
precedente, se non per un allungamento obbligatorio del tempo
di conservazione dei dati.
Il decreto legge, preso in sé, (e nell'ipotesi che
rimanga tal quale e sia applicato con "buone intenzioni")
non è più preoccupante o vessatorio di altri provvedimenti
emanati o in corso di emanazione sulle attività in rete. Ma se lo si
osserva nel contesto, cioè nel processo di continua
erosione dei diritti civili da tempo in atto, si rivela come
ennesimo sintomo di un problema più generale -
che non riguarda solo l'Italia.
Quando si parla di data retention i termini del dibattito
si riassumono quasi sempre nel contrasto fra sostenitori
della privacy e organismi investigativi. Se ci si limita a
questo tema (importante, ma non l'unico né il
principale) si perdono di vista sia i pericoli per altri, e
non meno rilevanti, diritti individuali, sia il quadro
più generale del rapporto fra dovere di protezione
da parte dello Stato e rispetto dei diritti civili.
In particolare, sta emergendo prepotentemente la tendenza
(già da molto tempo sviluppata in pratica, ma non ancora
formalmente codificata) a trasformare il criterio di responsabilità
dalla sanzione degli effetti di un comportamento a punizione di uno
"status" considerato a priori come colpevole.
Cioè il concetto, in sé legittimo e corretto, di
prevenzione si trasforma in sanzione arbitraria contro
categorie, reali o immaginarie, di "presunti trasgressori".
Non c'è dunque, il responsabile di un furto, ma
"il ladro". Non l'autore di un accesso abusivo a
una rete, ma "il pirata" (definizione impropria e
bizzarramente applicata anche ad attività, illecite o non,
che nulla hanno a che vedere con omicidi, ladrocini ed estorsioni).
Non «il soggetto che detiene immagini pornografiche prodotte
mediante lo sfruttamento sessuale dei minori», ma "il pedofilo".
In altri termini, si creano "modelli criminali"
che vanno puniti non per quello che fanno, ma per quello che
sono, o, meglio, che potrebbero essere. Senza nemmeno bisogno
che il "modello" compia concretamente un atto illecito.
È evidente che queste definizioni, sostanzialmente
vaghe, approssimate e arbitrarie, permettono a chiunque abbia
poteri di controllo e sanzione di perseguitare, con una varietà
di pretesti, chiunque sia sgradito, dissenziente o scomodo.
Il quadro,
ovviamente, si aggrava in presenza di un
problema drammatico e preoccupante come il terrorismo. Che
mette in evidenza la necessità di una intelligente prevenzione
- quanto la necessità (funzionale oltre che etica) di
non scatenare arbitrarie e pericolose cacce alle streghe, di non cadere in
"categorizzazioni" improprie - e di non intaccare,
con il pretesto della minaccia terrorista, quei diritti umani e civili,
e quelle libertà personali, di cui ci si dichiara difensori.
In questo contesto, la data retention (insieme ai
criteri, inevitabilmente arbitrari, di analisi e classificazione dei contenuti)
gioca un ruolo essenziale perché consente di creare tanti "modelli
comportamentali" quante sono le necessità di chi indaga
- come di chiunque altro, per qualsiasi altro motivo, ha accesso ai
dati. E per di più, considerato che una conservazione generalizzata
dei dati di traffico è estremamente onerosa sia dal punto di vista
tecnico, sia da quello economico-gestionale, non è improbabile
che si debba operare una scelta sui soggetti il cui traffico
dovrà essere conservato. Aprendo così la strada a schedature
di massa delle persone "sgradite" al potere. Che
già esiste - ma con più massicce risorse tecniche
non solo può essere enormemente potenziata, ma può
anche creare infinite complicazioni per le inevitabili imperfezioni e
arbitrarietà degli automatismi.
Sappiamo, per esperienza pratica, che la
"profilazione" a fini commerciali funziona
malissimo ed è molto meno efficace di altre, più
civili, forme di dialogo e scelta degli interlocutori. Ma la leggenda,
diffusa ad arte dai mercanti di dati, della sua efficacia ha prodotto
non solo un comprensibile allarme, ma un esagerato allarmismo
- per cui se da un lato si tenta di limitare la
"profilazione" come strumento commerciale,
dall'altro si immagina che sia uno strumento utile per le
indagini - o per altri controlli e manipolazioni, tutt'altro
che trasparenti e legittime, da parte dei centri di potere.
Con l'uso di strumenti inaffidabili quanto manipolabili
si sviluppano indagini e processi (oltre a molte forme non
giudiziarie di persecuzione) contro "identità
virtuali" che possono facilmente essere create ad hoc
secondo ogni sorta di pregiudizi o di intenzioni persecutorie. Con
l'aggravante che le vittime non sanno come difendersi
perché l'indagine "è fatta con
il computer" e perché non c'è modo
di sapere come siano stati generati i dati.
Così il mito di "infallibilità
della macchina" si incrocia con una forma di
"neo lombrosismo" che
permette di creare ad libitum categorie di presunti
"criminali tendenziali" o "tipologie
predisposte" a qualsiasi persona, o categoria di
persone, sia considerata scomoda o fastidiosa. Una specie di
pogrom istituzionalizzato, senza neppure la trasparenza e la
visibilità di un pregiudizio etnico o culturale
pubblicamente dichiarato.
Inoltre, in ogni indagine "automatizzata"
possono nascondersi pericoli di varia specie. Criteri
impropri o arbitrari possono essere inseriti nel sistema in
modo occulto e difficilmente rilevabile - e altrettanto
"invisibili" distorsioni possono derivare
dall'imperizia, o dall'intenzionale deformazione,
di un operatore.
Una somma di intenzionali persecuzioni e di involontari
errori (e con infinite complicazioni derivanti dalla
"convergenza" dei due fattori) può
produrre conseguenze così vaste e complesse che
è preoccupante anche solo immaginarle.
Su questo tema dovremo ritornare, in una prospettiva piùestesa. Ma intanto, e come provvisoria conclusione,
ritorniamo al caso specifico di questo decreto legge.
È vero che si parla, nel decreto, di procedure
"garantiste" sulla conservazione sull'accesso ai
dati di traffico, ma senza alcuna chiara indicazione di come
debbano essere realizzate. Per di più, se la creazione
dei dati di traffico è intenzionalmente truccata, o casualmente
inesatta, conservarli "correttamente" significa
solo conservare sistematicamente dati sbagliati. E chiunque
abbia un po' di competenza in fatto di elaborazione
elettronica sa che questo non è solo possibile, ma
piuttosto frequente.
Insomma la necessità di sorveglianza per la difesa dei diritti
civili e delle libertà individuali non riguarda solo la privacy.
E va molto oltre il caso specifico di questo mal concepito
decreto legge, che è solo un episodio di una serie lunga
nel tempo, che tende continuamente a peggiorare.
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