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 Il decreto legislativo 103/95 e le autorizzazioni generali

103/95: la storia continua, aspettando le autorizzazioni generali
di Manlio Cammarata - 11.01.99

La storia continua, anzi, continua la noiosa filastrocca, tanto è monotona e ripetitiva.
Fino agli ultimi giorni dell'anno appena concluso ci sono arrivate richieste di chiarimenti in merito all'applicazione del decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 103 e del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 1995, n. 420.
Niente di nuovo, le domande sono sempre le stesse, e quindi sono sempre le stesse le risposte, che possono essere lette nelle FAQ (domande ricorrenti) alla pagina "
Come essere in regola con dichiarazioni e domande di autorizzazione".
Niente di nuovo anche sul fronte dei controlli. La polizia postale continua a elevare verbali di contravvenzione per la mancanza di autorizzazione per linee dedicate che non sono oggetto di offerta di servizi di telecomunicazioni.
Nessuna novità anche dal Palazzo. Il
Ministero delle comunicazioni continua ufficialmente a ignorare la questione. Nessun segno dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ora competente per la materia.

E' incredibile che, in più di tre anni dall'emanazione del famigerato decreto legislativo, il Ministero delle comunicazioni non abbia dato un'interpretazione autentica delle disposizioni del decreto, come è incredibile che un buon numero di operatori ignori ancora l'esistenza di quelle norme o continui a inviare le stesse domande allo stesso sito che, da almeno un anno, mette tutte le risposte alla portata di un clic.

Ora la musica dovrebbe cambiare: come vedremo tra poco, con il 31 dicembre 1998 almeno una parte delle disposizioni del '95 non dovrebbe essere più applicabile, dal momento che è in netto contrasto con la direttiva europea 97/13 CE, automaticamente applicabile dal 1. gennaio scorso.
Ma prima è opportuno ancora una volta (speriamo che sia l'ultima!) rivedere i punti essenziali del problema.

Il doppio regime per l'offerta di accesso

Il decreto legislativo 17 marzo 1995, n. 103, fu emanato per accogliere, in ritardo, le disposizioni di diverse direttive europee, in particolare la 90/388 CE, sulla liberalizzazione dei servizi di telecomunicazioni diversi dalla telefonia vocale (di fatto l'effettiva liberalizzazione ha avuto inizio in Italia alla metà del '96, mentre la telefonia vocale è rimasta monopolio di Telecom Italia fino al 31 dicembre 1997).

Quella introdotta dal 103/95 fu, nella sostanza, una specie di liberalizzazione al contrario, perché sottopose a burocrazia e balzelli l'attività dei fornitori di accesso all'internet, che fino a quel momento avevano operato in una condizione non regolamentata.
Va ricordato che in un primo momento si discusse addirittura se quelle norme dovessero applicarsi o meno anche agli Internet service provider. Qualcuno, che non aveva letto del definizioni dell'articolo 1 o che non sapeva nulla dell'internet, disse addirittura che si trattava di "trasmissione dati". Fu interrogato, in via informale, anche il Ministero (allora "delle poste e delle telecomunicazioni"). Il primo dirigente interpellato chiese "Internet? Che è?".
Un secondo dapprima escluse che i servizi di accesso all'internet rientrassero nelle previsioni del decreto, poi ci ripensò e confermò la nostra prima interpretazione su quali servizi fossero soggetti alla semplice dichiarazione e quali alla domanda di autorizzazione.
Tuttavia in seguito il ministero ha seguito, nei fatti, l'interpretazione contraria, anche se mai in via formale. Si deve ricordare che il DLgs 103 fu seguito da un regolamento applicativo, il
decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 1995, n. 420, e da un decreto ministeriale (senza numero, pessima abitudine!) con la determinazione dei contributi per le autorizzazioni, il successivo 5 settembre.

Vediamo ora i punti fermi del problema.

1. Il decreto legislativo 103/95 si intitola "Recepimento della direttiva 90/388/CEE relativa alla concorrenza nei mercati dei servizi di telecomunicazioni".
Dunque non riguarda fattispecie che non sono servizi di telecomunicazioni e non si applica dove non c'è "mercato".

2. I servizi di telecomunicazioni sono così definiti all'articolo 1, comma 1, lettera d):
"i servizi la cui fornitura consiste totalmente o parzialmente nella trasmissione e nell'instradamento di segnali sulla rete pubblica di telecomunicazioni mediante procedimenti di telecomunicazioni, ad eccezione della radiodiffusione e della televisione".
Ne consegue che i servizi come hosting, housing, realizzazione di pagine WEB, messa a disposizione di apparecchiature collegate alla rete e via discorrendo, non sono servizi di telecomunicazioni e quindi non rientrano nel campo di applicazione del decreto.

3. L'offerta di servizi di telecomunicazioni è soggetta ai vincoli stabiliti dall'articolo 3 "Offerta di servizi di telecomunicazioni", che recita:
"1. Quando sono utilizzati collegamenti commutati della rete pubblica, i servizi di cui all'art. 2, comma 1, fatta eccezione per quelli di cui al comma 3 del presente articolo, possono essere offerti al pubblico decorsi sessanta giorni dalla presentazione al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni di una dichiarazione con la relazione descrittiva dei servizi e dei collegamenti.
2. Quando sono utilizzati collegamenti diretti della rete pubblica, l'offerta al pubblico dei servizi di cui all'art. 2, comma 1, anche da parte del gestore della rete pubblica, deve essere previamente autorizzata dal Ministero delle poste e delle telecomunicazioni
".
La parola-chiave è "offerta": dove non c'è offerta non si applicano le norme in questione.

La differenza tra la fattispecie prevista dal comma 1 e quella prevista dal comma 2 non è soltanto nella procedura, ma anche nell'aspetto economico. La dichiarazione non è onerosa, mentre l'autorizzazione comporta l'esborso di un milione di lire all'inizio, più un milione l'anno per "ciascuna sede in cui sono installate apparecchiature di commutazione, a titolo di rimborso delle spese sostenute dal Ministero delle poste e delle telecomunicazioni per l'esecuzione di controlli amministrativi e di verifiche tecniche", come si legge nel decreto ministeriale del 5 settembre '95.
A prima vista sembra tutto chiaro: chi offre il servizio di telecomunicazioni "accesso all'internet attraverso la rete commutata" ricade nella previsione dell comma 1 ed è quindi soggetto alla semplice dichiarazione, mentre chi offre accessi su dedicata (collegamenti diretti) deve avanzare la domanda di autorizzazione e pagare. Chi non offre né l'uno né l'altro, ma servizi diversi (housing, hosting ecc.) non rientra, come si è detto, in questa normativa e quindi non ha alcun obbligo.
"Sembra" chiaro, appunto, ma non lo è. Perché anche nell'offerta di accesso attraverso la rete commutata c'è una linea dedicata: è quella che collega il provider al nodo di livello superiore, o alla rete pubblica, quindi l'espressione "quando sono utilizzati collegamenti diretti" farebbe rientrare nella disciplina autorizzatoria anche i provider che offrono soltanto accessi via linea commutata.

Questa interpretazione contrasta in primo luogo con il buonsenso, perché in questo modo nessun fornitore di servizi di telecomunicazioni rientrerebbe nella disciplina dichiaratoria, posto che è molto difficile fornire "la trasmissione e l'instradamento dei segnali sulla rete pubblica" senza un collegamento diretto.
Inoltre - e questa è la considerazione più importante - la linea dedicata che si trova "a monte" dell'offerta del servizio non viene offerta, ma soltanto usata dal fornitore del servizio stesso. La differenza è sostanziale.

Ancora, il collegamento diretto è di fatto e di diritto "offerto" dall'operatore di telecomunicazioni (ancora Telecom Italia nella maggior parte dei casi) e quindi, se si accettasse l'ipotesi che esso rientra nell'offerta da parte del fornitore di accesso, si dovrebbero chiedere due autorizzazioni per la stessa linea, una da parte di Telecom (che la offre) e una da parte del provider (che non la offre).

Un chiarimento inefficace

Con il DPR del 4 settembre 1995, n. 420, all'apparenza la questione viene chiarita. Recita infatti il primo comma dell'articolo 4 "Dichiarazione":

"Nel caso di offerta di servizi su collegamenti commutati di cui all'art. 3, comma 1, del decreto legislativo 17 marzo l995, n. 103, gli interessati, aventi sede in ambito nazionale o in uno dei Paesi dello Spazio economico europeo (SEE), debbono inviare al Ministero delle poste e delle telecomunicazioni una dichiarazione conforme allo schema riportato nell'allegato A".

"Offerta di servizi su collegamenti commutati": la frase equivoca del 103 è scomparsa nell'articolo che si riferisce alla dichiarazione, mentre nell'articolo 5 "Autorizzazione" non viene introdotta alcuna descrizione del servizio, sicché resta quella del decreto legislativo "Quando sono utilizzati collegamenti diretti".

Un'ulteriore conferma della nostra interpretazione viene dal provvedimento n. 2662 dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (Telsystem/Telecom Italia) del 10 gennaio 1995. Questo provvedimento, pur riguardando un'altra questione che esamineremo tra poco, contiene un'affermazione interessante anche per il nostro problema. Vi si legge che "tra gli elementi che un servizio di telecomunicazioni deve necessariamente possedere per essere classificato come servizio di telefonia vocale vi è la 'fornitura al pubblico' del servizio stesso. I servizi di telefonia per GCU (gruppi chiusi di utenti, ndr), per definizione, non sono forniti al pubblico, ma ad utenti predeterminati".
E' la stessa situazione che si verifica per il collegamento che il provider usa per raggiungere il nodo superiore o la rete pubblica: si tratta di una linea che collega utenti predeterminati, non è fornita al pubblico, non è "offerta". E quindi non rientra nelle previsione dell'articolo 3 del DLgs 103/95. Dunque, nei casi in cui l'offerta riguardi solo accessi via rete commutata, si deve applicare il regime dichiaratorio, non quello autorizzatorio.

Ma, nonostante tutto, per più di tre anni, la polizia postale ha continuato a elevare contravvenzioni e a minacciare la sospensione del servizio a operatori che offrono solo collegamenti attraverso linee commutate.
C'è da registrare, a questo proposito, anche una serie di voci, secondo le quali gli agenti farebbero al malcapitato provider un discorso di questo tipo: "se fai la domanda di autorizzazione, bene, altrimenti ti tagliamo i fili". Se è vero, si tratta della minaccia di un "danno ingiusto" che solo la mancanza di profitto impedisce di classificare come estorsione. In ogni caso, a questo punto l'operatore fa la domanda - e paga - perché anche pochi giorni di sospensione del servizio (nella migliore delle ipotesi) possono essere fatali per l'impresa.

La fine del doppio regime

Ma ecco la novità. Dal 1. gennaio '99, cioè da pochi giorni, il DLgs 103/95 e i suoi derivati non dovrebbero più avere efficacia, almeno nella parte che riguarda le autorizzazioni, in applicazione della direttiva 13/97/CE "Disciplina comune in materia di autorizzazioni generali e di licenze individuali nel settore dei servizi di telecomunicazioni".
Questa disciplina è stata formalmente, ma parzialmente, recepita con il
DPR n. 318 del 19 settembre 1997, che in tre commi dell'articolo 6 disegna la nuova situazione:

1. L'offerta al pubblico di servizi di telecomunicazioni diversi dalla telefonia vocale, dall'installazione e dalla fornitura di reti pubbliche di telecomunicazioni, comprese quelle basate sull'impiego di radiofrequenze, è subordinata ad una autorizzazione generale sulla base delle condizioni e dei criteri elencati nell'allegato F[...];
...
5. Il contributo richiesto alle imprese per la procedura relativa all'autorizzazione generale copre esclusivamente i costi amministrativi connessi all'istruttoria, al controllo della gestione del servizio e del mantenimento delle condizioni previste per l'autorizzazione stessa. La misura di tale contributo è
fissata dall'Autorità [...];
...
30. Le disposizioni del decreto legislativo 17 marzo 1995, n.103, del decreto del Presidente della Repubblica 4 settembre 1995, n. 420, e del decreto legislativo 11 febbraio 1997, n. 55, relative alle condizioni per l'esercizio dei servizi ivi liberalizzati, continuano ad applicarsi fino alla pubblicazione, sulla base del presente regolamento, delle corrispondenti condizioni di autorizzazione. I soggetti che prestano servizi di telecomunicazioni sulla base delle predette disposizioni sono tenuti a conformarsi alle condizioni ivi previste entro centoventi giorni della loro emanazione.

Dunque non si parla più di "domande di autorizzazione", anche perché le autorizzazioni previste dal 103/95 per l'offerta su linee dedicate sono "individuali" e quindi escluse dalla normativa europea per questo tipo di servizi (vedi gli articoli 4 e seguenti della direttiva 13/97/CE), mentre le autorizzazioni generali sono rilasciate in seguito a una semplice dichiarazione, quella prevista dal vecchio decreto legislativo solo per l'offerta su linee commutate.

Un punto importante è costituito dal comma 5, che copia l'articolo 6 della direttiva 97/13:
"Fatti salvi i contributi finanziari per la prestazione del servizio universale secondo l'allegato, gli Stati membri fanno sì che i diritti richiesti alle imprese per le procedure di autorizzazione siano intesi a coprire esclusivamente i costi amministrativi connessi al rilascio, alla gestione, al controllo e all'attuazione del relativo sistema di autorizzazione generale. Tali diritti sono pubblicati in maniera opportuna e dettagliata, affinché si possa accedere agevolmente a tali informazioni.

Ma il decreto del Ministro delle comunicazioni 5 febbraio 1998 interpreta a modo suo la disposizione comunitaria, imponendo un'autentica "stangata": un milione per il rilascio dell'autorizzazione generale, più un milione l'anno per ogni sede. Così a tutti gli operatori si applicano i balzelli ai quali prima era assoggettato solo chi forniva accessi su linea dedicata, in una misura che appare assolutamente superiore a quella necessaria per "coprire esclusivamente i costi amministrativi", come dispone la direttiva europea, ripresa dal DPR 318/97.
Però le condizioni di autorizzazione, previste dal comma 30 dell'articolo 6 del decreto presidenziale, non sono state emanate. Sicché non può decorrere il termine di 120 giorni entro il quale gli operatori si devono adeguare e la stangata resta, per ora, sulla carta.

Ma ora viene il bello: la citata direttiva 97/13/CE stabilisce all'articolo 22 che:

1. Gli Stati membri adoperano tutte le energie necessarie affinché le autorizzazioni esistenti al momento dell'entrata in vigore della presente direttiva si conformino alle disposizioni di quest'ultima anteriormente al 1° gennaio 1999.
...
3. [...] gli obblighi risultanti dalle autorizzazioni esistenti alla data di entrata in vigore della presente direttiva non conformi con la stessa alla data del 1° gennaio 1999 saranno inefficaci. Ove giustificato, gli Stati membri possono, su richiesta, ottenere dalla Commissione, un differimento di tale data.

Ora, posto che non risulta che l'Italia abbia richiesto il differimento previsto dalla seconda parte del terzo comma, dal 1. gennaio 1999 non hanno più efficacia le norme sulle autorizzazioni previste dal DLgs 103/95 e sui relativi contributi, in quanto "non conformi" alle disposizioni della direttiva.

Infatti appare fuori di dubbio che la direttiva 97/13 sia self executing, cioè sia direttamente applicabile anche se non formalmente accolta nel nostro ordinamento. Lo conferma il già citato provvedimento n. 2662 dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, a proposito della direttiva 90/388/CE:

Sia la Corte di Giustizia CE sia la Corte Costituzionale hanno da tempo elaborato il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie non trasposte: in tutti i casi in cui alcune disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, tali disposizioni possono essere invocate dai singoli nei confronti dello Stato, indipendentemente dalla veste nella quale questo agisce, qualora la direttiva stessa non sia stata tempestivamente recepita nel diritto nazionale, oppure sia stata recepita in modo inadeguato (si veda per tutte Corte Costituzionale, sentenza n. 168/1991, ivi ampi richiami alla giurisprudenza della Corte di Giustizia).

Non sembra discutibile che le disposizioni della direttiva 97/13/CE siano "dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise". Quindi, anche se non è stata emanata la normativa di recepimento, queste disposizioni "possono essere invocate dai singoli nei confronti dello Stato".

Intervenga l'Autorità per le garanzie

In conclusione:
1. l'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 103/95, relativo alle autorizzazioni, è in contrasto con la direttiva 97/13/CE e quindi è inefficace in virtù della diretta applicabilità della direttiva stessa a partire dal 1. gennaio 1999;
2. di conseguenza sono inefficaci le disposizioni del DPR 420/95 e del DM 5 settembre 1995, che stabiliscono le procedure per il rilascio delle autorizzazioni e dei relativi contributi;
3. non appare in contrasto con la direttiva il primo comma dell'articolo 3 del DLgs 103/95, relativo alle dichiarazioni, che dovrebbe quindi essere ancora efficace.
4. è inefficace anche il decreto ministeriale 5 febbraio 1998, che stabilisce la misura dei contributi per le autorizzazioni generali, perché non sono state emanate le norme relative, previste dal DPR 318/97.

Se ne deve dedurre che dal 1. gennaio scorso tutti i fornitori di servizi di accesso all'internet sono soggetti al regime dichiaratorio previsto dall'articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 103/95, e che di conseguenza non devono versare alcun contributo.
Si aggiunga che la direttiva, all'articolo 5, prevede che "All'impresa può essere imposto un periodo di attesa a decorrere dalle ricezione formale di tutte le informazioni richieste [...] non superiore a quattro settimane prima di iniziare a prestare i servizi oggetto dell'autorizzazione generale". E questo è il termine che dovrebbe essere ora applicabile, invece dei sessanta giorni previsti dal 103/95.

Ora, siccome una deduzione contenuta in un articolo pubblicato sull'internet non costituisce fonte di diritto, la realtà è che ci troviamo in una situazione di totale confusione e di grave vuoto normativo.
E' compito dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni dettare le regole in questo settore. Con l'occasione, potrà anche rivedere la misura dei contributi, portandola a un livello compatibile con le disposizioni europee e con i bilanci degli Internet provider italiani. Si consideri che per un ISP che abbia un centinaio di POP, la misura del contributo annuale (100 milioni) è pari a quella richiesta a un operatore di telecomunicazioni per la licenza individuale di fornitura del servizio di telefonia vocale su tutto il territorio nazionale (DM 5/2/98, articolo 3) e che lo stesso operatore è soggetto a un contributo "per controlli e verifiche" di 120 milioni l'anno (articolo 4)!

Lo chiediamo, a nome di tutti gli access provider che ci seguono e ci scrivono, al presidente dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, professor Enzo Cheli, con una lettera aperta. Ci aspettiamo una risposta sollecita e, soprattutto, finalmente chiara.