Il Ministero ordina, la Polizia obbedisce
di Manlio Cammarata - 06.04.2000
Dopo cinque anni di discussioni, tre fatti nuovi
aprono quello che potrebbe essere il capitolo finale della questione
dichiarazioni/autorizzazioni per gli internet provider, aperta dal decreto
legislativo 17 marzo 1995, n.103. I fatti sono:
- l'apertura di una "procedura di infrazione" da parte della
Commissione europea per la mancata attuazione delle disposizioni della direttiva
97/13/CE sulle autorizzazioni generali;
- la sentenza del Tribunale di Udine del 25 febbraio scorso, che dà ragione a
un provider multato per aver fornito servizi solo su linea commutata senza
l'autorizzazione ex art. 3, comma 2, del 103/95;
- la rivelazione del contenuto di note inviate dal Ministero delle comunicazioni
alla Polizia postale, che contengono indicazioni chiaramente contrarie alla
legge.
Sul primo punto, l'apertura da parte della UE di
una serie di procedimenti contro l'Italia per i ritardi nell'attuazione delle
direttive comunitarie sulla liberalizzazione dei servizi di telecomunicazioni,
non si hanno ancora notizie dettagliate. In ogni caso si tratta di un fatto più
che prevedibile e che potrebbe determinare - al di là delle conseguenze
possibili sulle vertenze in corso - il rapido passaggio a un regime realmente
"liberalizzato" per l'attività degli internet provider.
La sentenza del
Tribunale di Udine costituisce, finalmente, un precedente giurisprudenziale
di grande rilievo, che conferma punto per punto tutto quello che per quasi
cinque anni abbiamo scritto su queste pagine: le linee dedicate usate dai
provider per la connessione alla rete non fanno parte dell'offerta di servizi e
quindi non comportano l'obbligo della richiesta di autorizzazione.
Per capire la portata della terza novità, è
necessario riassumere brevemente i termini della questione (chi volesse maggiori
dettagli, trova molti articoli nell'indice
di InterLex dedicato all'argomento).
Il decreto legislativo 17 marzo 1995 n. 103
attuava (con notevole ritardo) la direttiva
90/388/CEE, "liberalizzando" alcuni servizi di telecomunicazioni,
fra i quali l'offerta di accessi all'internet. E' appena il caso di ricordare
che questa attività non aveva alcun bisogno di essere liberalizzata, dato che
fino a quel momento era del tutto libera.
Invece il decreto legislativo subordinava
l'attività di internet provider a due distinte formalità: una semplice
notificazione al Ministero delle poste e telecomunicazioni nel caso di offerta
di accesso attraverso le linee commutate delle rete pubblica e una richiesta di
autorizzazione nel caso di offerta di accesso mediante linee dedicate.
Autorizzazione molto onerosa, (un milione di lire per ogni sede) per i
magrissimi bilanci degli internet provider di allora.
Il testo del decreto era molto oscuro e sorgevano subito questioni
interpretative, prima fra tutte se gli internet provider e i BBS rientrassero
nella disciplina prevista. Risolto affermativamente il quesito per gli internet
provider, nasceva il problema del secondo comma dell'articolo 3: il Ministero
insisteva, e insiste, su un'interpretazione "allargata": se c'è una
linea dedicata, occorre l'autorizzazione, anche se questa linea non è oggetto
dell'offerta di servizi di telecomunicazioni.
La sentenza di Udine fa giustizia - è proprio il caso di dirlo - di questa
bestialità tecnico-giuridica.
Nel '96, con le prime irruzioni della Polizia
postale nasceva un'altra "grana": gli agenti contestavano (e
continuano a contestare, tra un attimo vedremo perché) la mancanza di
autorizzazione anche alle biblioteche e agli internet café che mettono a
disposizione del pubblico postazioni collegate all'internet. Contestazione
assurda, perché in questi casi non viene offerto un servizio di
telecomunicazioni, oggetto della normativa, ma l'uso di un PC. Recitano infatti
le definizioni dell'articolo 1 del decreto legislativo: "Servizi di
telecomunicazioni", i servizi la cui fornitura consiste totalmente o
parzialmente nella trasmissione e nell'instradamento di segnali sulla rete
pubblica di telecomunicazioni mediante procedimenti di telecomunicazioni, ad
eccezione della radiodiffusione e della televisione". Questa attività
viene svolta dall'internet provider al quale il locale pubblico o la biblioteca
sono collegati.
Per quasi cinque anni, esattamente dal settembre
'95, quando furono emessi il DPR 420 e il decreto
ministeriale applicativi del 103, sono stati chiesti chiarimenti ufficiali
sull'applicazione delle norme. Nessuna risposta.
Anche l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, che secondo la legge
249/97 ha ereditato le competenze in materia, si è ben guardata
dall'intervenire, nonostante gli impegni assunti pubblicamente da un suo
commissario. Va ricordato che dal 1. gennaio 99 l'Italia avrebbe dovuto
applicare il regime delle autorizzazioni generali imposto dalla direttiva
97/13 CE, ma le relative norme non sono mai state emanate e la Polizia
postale ha sempre continuato con ispezioni, verbali e sanzioni milionarie in
forza del DLgs 103/95. Da qui la procedura di infrazione aperta dagli organismi
comunitari.
Ma ora si scopre che la Polizia postale, spesso
indicata (anche su queste pagine) come principale responsabile della vessatoria
interpretazione della normativa, ha agito sulla base di precise disposizioni del
Ministero delle comunicazioni.
Infatti in una nota inviata alla Polizia postale su carta intestata del
Ministero, Direzione
Generale per le concessioni e le autorizzazioni, Divisione IV, Sezione I,
si afferma tra l'altro che "I service provider, avendo normalmente più
rivenditori o più POP (Point of Presence) collegati a valle in modo diretto,
devono fare la richiesta di autorizzazione. Il rivenditore di servizi
normalmente rivende invece l'accesso su rete pubblica commutata (dichiarazione).
Vi sono però dei casi di "grandi utenti" (alberghi, ristoranti, enti
vari) che richiedono al rivenditore un collegamento diretto. In quest'ultimo
caso occorre una richiesta di autorizzazione".
Qui l'interpretazione della norma raggiunge il
delirio: si pretende l'autorizzazione non per l'offerta di servizi, ma per la
richiesta!
Non basta. In un'altra nota, in data 26 settembre
1998, il Ministero comunica alla Polizia che "... ai sensi dell'art. 3,
comma 1 del D. Lgs. 103 del 1995, il titolare di un pubblico esercizio che
intenda offrire l'uso di apparecchiature informatiche per il collegamento ad
"internet" è tenuto alla presentazione della prevista dichiarazione a
questo Ministero indipendentemente dal fatto che tale prestazione sia
subordinata o meno al pagamento di un corrispettivo specifico. Tale
dichiarazione infatti è legata alla necessità, per il Ministero, di conoscere
quali soggetti svolgono servizi di telecomunicazioni e di effettuare controlli e
verifiche nonché valutazioni statistiche".
E' un'iniziativa palesemente illegittima. Infatti
il Ministero può imporre adempimenti, ordinare ispezioni e far irrogare
sanzioni solo nei casi e ai fini previsti dalla legge (articolo 1 della legge
689/81). Non per "conoscere quali soggetti svolgono servizi di
telecomunicazioni" (ma fra questi non ci sono i titolari di pubblici
esercizi - i bar o gli internet point, come abbiamo appena ricordato) o
per "effettuare controlli e verifiche nonché valutazioni
statistiche".
Non occorre un grande sforzo interpretativo per arrivare alla desolante
conclusione che il Ministero delle comunicazioni manda in giro le squadre di
agenti con lo scopo di schedare chi offre accesso alla Rete. Incredibile.
Almeno ora sappiamo che la Polizia esegue ordini
"dall'alto". Ma chi ha emanato questi ordini dovrebbe essere chiamato
a risponderne, anche davanti a un giudice.
Per il resto, l'attesa dovrebbe essere breve, anche se oramai siamo abituati
alle sorprese...
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