Ancora Telecom Italia sulle prime pagine di giornali, perché il pacchetto
azionario di controllo del maggiore operatore di comunicazioni italiano potrebbe
essere venduto a operatori stranieri. Niente di nuovo, sarebbe il caso di dire,
perché in dieci anni dalla privatizzazione i passaggi mano sono stati già tre
(Stet, Colaninno, Tronchetti Provera).
II punto è che i passaggi di proprietà non hanno portato nessun cambiamento
sostanziale per gli utenti di quello che è ancora l'operatore di gran lunga
dominante sul mercato delle telecomunicazioni. Sono ancora troppo pochi quelli
che non pagano più il canone a Telecom Italia, perché la sua rete è l'unica
che copre tutto il territorio, fino alle case degli abbonati. L'operatore è nello stesso tempo fornitore di servizi e gestore della
rete, sulla quale devono passare anche contenuti e servizi dei suoi concorrenti. In termini tecnici si parla di "integrazione verticale", un
assetto che frena l'espansione del mercato e la concorrenza.
Un apposito organismo indipendente, l'Autorità per le garanzie nelle
comunicazioni, dovrebbe vigilare ed evitare i conflitti, ma in questi anni la
sua azione è apparsa lenta e poco efficace. Il libero mercato non decolla come
dovrebbe, i costi per gli utenti non scendono abbastanza.
Ora, di fronte alla prospettiva del passaggio dei pacchetto azionario di
controllo della società in mani straniere, ci si rende conto dei rischi che
può comportare soprattutto la gestione della rete in mano a operatori
interessati solo a massimizzare i profitti. Ci si chiede se non sia il caso di
mantenere in qualche modo "pubblico" il controllo di un'infrastruttura
unica ed essenziale per il sistema-paese.
Fra le tante ipotesi che sono state avanzate nelle ultime settimane c'è
anche quella di un intervento di Mediaset, in nome dell'italianità e del libero
mercato. E' un'ipotesi quanto meno bizzarra, perché (a parte il noto conflitto
di interessi del proprietario dell'azienda), realizzerebbe un ancora più
pesante conflitto di interessi in capo allo stesso gruppo, con la concentrazione
oltre il limite della decenza del controllo dei contenuti e della rete che li
trasporta. Dunque con maggiori problemi per i produttori concorrenti
nella fornitura di contenuti e servizi: un rimedio peggiore del male.
Per fortuna l'Unione europea non sta a guardare. Il libero mercato è un
dogma comunitario che non ammette eccezioni. Dunque per Bruxelles è opportuno
separare il governo delle rete dalle altre attività. Questa sembra l'intesa
raggiunta in un colloquio telefonico tra la commissaria per la società
dell'informazione e i media, Viviane Reading, e il nostro ministro delle
comunicazioni, Paolo Gentiloni.
Naturalmente ci sono dei "paletti": non se ne deve occupare il
Governo, ma tocca all'autorità indipendente imporre la "separazione
funzionale" della rete dai servizi, al fine di risolvere i problemi di
concorrenza nel settore in Italia (vedi la il
servizio su Repubblica di ieri).
Quale sia l'effettivo contenuto della formula "separazione
funzionale" è da vedere, e sarà probabilmente motivo di polemiche nel
prossimo futuro. Una semplice divisione di funzioni nell'ambito del gruppo
societario non sembra possa essere efficace, se il controllo del gruppo stesso
resta in una sola mano, italiana o straniera che sia.
Il vero problema è nella natura bicefala della rete: da una parte è un
servizio servizio pubblico di interesse generale, dall'altra deve restare in
mano ai privati, in ossequio al dogma liberista. Sicché si possono verificare
conflitti tra l'ottica del profitto e l'ottica del servizio: la
seconda impone investimenti e politiche commerciali che possono essere in
contrasto con la prima (e l'esperienza recente delle autostrade dovrebbe avere
insegnato qualcosa).
In attesa degli sviluppi restano due ordini di considerazioni: il primo
riguarda il nostro capitalismo "malato" anche per mancanza di regole
efficaci sull'assetto delle aziende e dei mercati. Su questo punto basta leggere l'intervista
che Guido Rossi, presidente dimissionario di Telecom Italia, ha rilasciato Repubblica
il 6 aprile.
Il secondo ordine di considerazioni riguarda invece noi utenti, che dalle
liberalizzazioni e dai "terremoti" azionari degli ultimi anni non
abbiamo ricavato nulla di effettivamente utile: si pensi al semplice caso dei
costi delle ricariche telefoniche. Un balzello iniquo a prima vista, frutto
evidente di un'intesa tra gli operatori, sul quale il "regolatore del
mercato" sarebbe dovuto intervenire molto prima che lo facesse il Governo,
con un provvedimento molto criticato proprio perché contrario alla visione
liberista dell'economia.
E' il momento dunque di aspettarci qualcosa di nuovo? Il pessimismo è
inevitabile, soprattutto rileggendo un articolo che si intitola Società
dell'informazione: l'Italia può attendere?, che in moti punti sembra di
oggi, ma è stato scritto undici anni fa. A futura memoria.
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