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Nomi a dominio

Quale "autorità" può dettare le regole?
di Manlio Cammarata - 19.12.02

Da più di un anno non affrontiamo le questioni relative alle regole per la registrazione dei nomi a dominio. Parliamo, naturalmente, delle regole di natura giuridica, perché quelle tecniche non sono di nostra competenza.
Riprendiamo il discorso perché circolano in rete (e qualcosa è apparso anche sulla stampa) alte grida e lamentose petizioni contro il "colpo di mano" che l'ente di registrazione (la cosiddetta "Registration Authority") avrebbe compiuto escludendo la sedicente "Naming Authority" dal contratto-tipo al quale devono aderire i soggetti privati, i "maintainer" che fungono da intermediari con i titolari dei nomi stessi.

Nessuna tragedia, anzi, finalmente ci avviciniamo a una parvenza di legalità in un settore di grande rilevanza economica. Il perché lo abbiamo scritto molte volte su queste pagine, in particolare nei due articoli Il dominio della tecnica e il dominio del diritto dell'ottobre dello scorso anno. Cerchiamo una sintesi in tre punti essenziali.

1. L'internet è un servizio di telecomunicazioni con milioni di utenti, come la telefonia. Non è uno strumento che interessa un numero limitato di soggetti, un'associazione o un club, che possa darsi delle regole interne (che, comunque, non potrebbero essere contrarie alla legge). La Naming Authority è una libera associazione, i cui componenti possono dire quello che vogliono, ma non ha alcun potere normativo riconosciuto dall'ordinamento.

2. L'ente di registrazione è una pubblica amministrazione italiana che rende un servizio a cittadini italiani o dell'Unione europea. Dunque il suo funzionamento è soggetto alle leggi dello Stato italiano, che attuano anche le disposizioni comunitarie. Secondo l'opinione prevalente, il rapporto che si instaura tra il titolare del nome, l'intermediario e l'ente è un rapporto di diritto privato,  quindi regolato dal codice civile (vedi anche Perché la Naming Authority "non esiste" di Daniele Coliva).

3. Le normative nazionale e comunitaria, in perfetto accordo, identificano nelle autorità indipendenti di controllo o negli organi di governo i soggetti che dettano le regole per i servizi di telecomunicazioni. In Italia questo compito è svolto dal Ministero delle comunicazioni.

In tutto questo il ruolo più delicato è appunto quello dell'ente di registrazione, del quale si devono definire esattamente le competenze, gli obblighi e gli eventuali poteri regolamentari. Ma deve essere chiaro che si tratta di un pubblico registro, del gestore di una base di dati, il cui compito principale consiste nell'associare un "nome" a un numero. Questo nome "appartiene" a chi è titolare dei relativi diritti, perché si tratta di un nome di persona, di un marchio o di un segno distintivo, o semplicemente di un prodotto dell'ingegno. Quindi l'ente non può "assegnarlo in uso" o "revocarlo": può accettare o rifiutare l'iscrizione, o cancellare un'iscrizione già fatta, secondo regole che non possono non derivare dalle leggi vigenti, che riguardano appunto i nomi delle persone, i marchi e i segni distintivi e le opere dell'ingegno. L'ente non può essere legibus solutus, cioè svincolato dal rispetto delle leggi.

Sono appunto queste le regole del funzionamento dell'ente che devono essere definite dall'autorità competente. E il Ministero delle comunicazioni, l'autorità competente in Italia, fa bene ad ascoltare le associazioni delle categorie interessate prima di emanare le regole. Ma il ruolo delle associazioni, in questa fase, finisce qui.
Possono formulare proposte, produrre istanze, elevare proteste se ritengono che qualcosa vada contro gli interessi dei loro iscritti. In molti casi possono anche comparire davanti al giudice. Ma non possono pretendere di dettare regole alle quali debba attenersi una pubblica amministrazione.

Questo vale anche per un aspetto importante del regime dei nomi a dominio: la definizione delle controversie in sede stragiudiziale. Nel nostro ordinamento c'è l'arbitrato, uno strumento perfettamente adeguato allo scopo. Non c'è motivo di ricorrere a figure e procedure tipiche di altri sistemi giuridici, con il forte rischio che le decisioni di questi "saggi" vengano annullate da un giudice. Tutto quello che si deve fare è prevedere la possibilità del ricorso all'arbitrato nelle condizioni generali dei contratti che hanno per oggetto la registrazione dei nomi a dominio.

E' dunque evidente che la NA non serve a nulla e non si capisce quale ruolo possa avere una fondazione che, secondo una proposta alternativa, dovrebbe sostituirla. Forse per scrivere norme sgangherate e spesso in contrasto con la legge, come quelle attuali?