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LA SOCIETÀ DELL'INFORMAZIONE

 

COMPORTAMENTI E NORME NELLA SOCIETÀ VULNERABILE

 


INTERVENTI - 26


No copyright nell'era digitale?
di Bernardo Parrella

Le società post-industriali di fine secolo sono impegnate nel tentativo di ridefinire il modo in cui la cultura crea e dà rappresentazione alla conoscenza e al sapere umano. E' in atto un frenetico intersecarsi di tecnologia e immaginazione che va producendo forme completamente nuove d'informazione, generate e prodotte grazie alle tecnologie digitali. Usando desktop computer, qui e ora, è possibile creare nuove produzioni artistiche (dipinti, animazioni, partiture musicali), inventare nuovi spazi socio-cibernetici (giochi interattivi, progetti architettonici, ambienti e comunità virtuali), dar vita a nuovi tipi di visualizzazioni didattico-scientifiche (appredimento a distanza, frattali, microscopia digitale), per non parlare delle ampie possibilità a disposizione in tema di produzioni originali in campo letterario.
Nella storia del pianeta non si era mai visto un progresso scientifico ed artistico in così vertiginosa ascesa e con la creativa partecipazione di così tanti individui. Né era mai stato così semplice e veloce distribuire le proprie creazioni (o acquisire quelle altrui) in ogni parte del mondo. Appare quindi logico trovare al centro del dibattito socio-culturale contemporaneo, prima ancora che tecnologico e legislativo, esattamente quelle norme a tutela del copyright e della proprietà intellettuale che in ogni Paese moderno sono "il" mezzo designato a garantire la promozione e la diffusione del sapere. "Ecco il dilemma a cui ci troviamo di fronte oggi: se opere di nostra proprietà possono venir riprodotte all'infinito e distribuite istantanemanete nell'intero pianeta senza alcuna spesa, a nostra insaputa, perfino senza smettere di rimanere in nostro possesso, come riusciremo mai a proteggerle? Come faremo ad esser ricompensati per il lavoro fatto con la testa? E se non saremo pagati, come potremo continuare a produrre e distribuire tali opere?"
Così fotografa la non semplice questione John Perry Barlow, nota personalità cyber-culturale e co-fondatore della Electronic Frontier Foundation. Non è quindi un caso se le politiche sul copyright sono divenute il contesto per ripensare e riesaminare concetti fondamentali della società dell'informazione quali proprietà privata, libertà d'espressione, equanimità d'accesso. Soprattutto negli Stati Uniti, tali questioni toccano direttamente il dettato costituzionale, i cui "padri fondatori" hanno prestato molta attenzione agli obiettivi sociali del copyright, dando esplicito e testuale mandato al Congresso per "la promozione del progresso scientifico ed artistico, assicurando ad autori e inventori il diritto esclusivo sui propri scritti, invenzioni, produzioni."

Non sono tuttavia in pochi a ritenere che sia proprio l'attuale corpo legislativo in materia ad impedire di fatto il processo di rinnovamento sociale, tecnologico ed educativo. E' quanto suggerisce Peter Lyman, responsabile della commissione sul copyright di Educom, il consorzio non-profit con base a Washington che raduna i maggiori college ed università statunitensi: "Mi chiedo se le leggi sul copyright, ideate a protezione di un concetto di proprietà ormai passato, non costituiscano un contesto troppo ristretto e troppo tecnico per poter contenere un dibattito sociale di così ampia portata. Il quale dibattito non verte tanto sulla necessità di leggi a tutela della proprietà intellettuale, quanto sul fatto se i tradizionali meccanismi sul copyright possano essere allargati fino ad includere i network computerizzati, o se invece ci sia bisogno d'inventare nuove culture e strumenti per la proprietà intellettuale meglio adatti alle comunicazioni telematiche."
E' infatti soprattutto su Internet, il network dei network, che il copyright appare anacronistico ed obsoleto. Relitto del mondo puramente fisico, costretto ad occuparsi di rudi oggetti come nastri, dischi, CD, floppies e libri, in cyberspace il diritto di proprietà è agonizzante. Lo sottolinea Lance Rose, legale del New Jersey specializzatosi in questioni online ed autore di due importanti opere, "Syslaw" e "Netlaw": "Su Internet non c'e bisogno di complesse apparecchiature per commettere infrazioni al copyright: basta un attimo per copiare un'opera digitale e distribuirla in migliaia di posti nel mondo. E se aggiungiamo la possibilità di servirsi dei remailer anonimi, risulterà impossibile scoprire chi ha compiuto l'infrazione. Al contrario dei media tradizionali, la vasta diffusione dei sistemi telematici ha aperto il campo a decine di milioni di potenziali contraffattori. Facilità nel commettere violazioni e difficoltà nel reprimerle potrebbero facilmente portare all'inevitabile conclusione che il copyright è morto."
Ma tale conclusione è più apparente che reale, secondo Rose. Il punto è che nella realtà dei fatti, compagnie discografiche, produttori cinematografici, editori e simili attività imprenditoriali non hanno mai basato i propri guadagni sulla capacità di bloccare i contraffattori: copie-pirata di numerosissimi prodotti sono facilmente reperibili in ogni città del mondo, ma ciò nonostante aziende e multinazionali varie, in particolare quelle del software, non smettono certo di ottenere lauti incassi; in modo del tutto analogo i produttori di programmi shareware, che ricevono pagamenti al massimo dal 5% degli utenti totali, hanno guadagni dell'ordine dei milioni di dollari. Insomma, per chi detiene il copyright su un determinato prodotto l'importante è tenere lontano dal mercato pubblico la merce contraffatta, piuttosto che perseguire fino in fondo i tanti possibili criminali. Nel senso che le industrie sanno bene di non aver la possibilità concreta di verificare e recuperare quelle stratosferiche perdite economiche che dichiarano esser dovute alla pirateria (per una stima intorno ai 15 miliardi di dollari nel 1994, in crescita rispetto ai quasi 13 dell'anno precedente). Ma non potendo ammetterlo pubblicamente, per ovvi motivi d'immagine e credibilità, puntano tutto sulla più rigorosa repressione di ogni minima violazione venga alla luce (meglio se con annesso clamore sui media). Come è accaduto, ad esempio, nella sbandierata vittoria ottenuta nel 1992 da Playboy in una causa contro una BBS in Georgia che trafficava in immagini digitali riprese dalla rivista oppure nella ben pubblicizzata chiusura di un sistema telematico californiano che piratava video-giochi della Sega. La tesi di Rose è che i poliziotti, basandosi sulla notevole esperienza acquisita finora nella lotta ai contraffattori di supporti musicali, libri e software, stiano semplicemente trasferendo le medesime tecniche al mondo online, servizi commerciali, BBS ed Internet inclusi. Obiettivo primario ed essenziale rimane quello di mantenere una certa distanza tra il mercato pubblico e quello pirata, bloccare i contraffattori prima che possano invadere rivendite e vicoli metropolitani, sistemi telematici e Internet. Il tutto insieme alla consistente e fattiva opera di potenti gruppi industriali come la Software Publishers Association e la Business Software Alliance.

Basate a cinque isolati di distanza l'una dall'altra nel cuore del distretto governativo di Washington, DC, le due organizzazioni perseguono scopi simili: raccogliere e diffondere dati sull'andamento del mercato del software, tenere regolari conferenze e meeting, assistere e consigliare i parlamentari su leggi e proposte varie (come l'accordo GATT o il fallito lancio del chip Clipper). Ma, è il caso di dirlo, si occupano soprattutto di combattere la pirateria del software ed incassare i relativi risarcimenti economici, come stabilito dalle norme statunitensi: fino al 1992 sono state circa 200 le aziende US denunciate dalla SPA, con centinaia di migliaia di dollari in rimborsi. Dopo essersi occupata esclusivamente delle infrazioni sul territorio nazionale, negli ultimi due-tre anni il gruppo (di cui fanno parte 1.150 compagnie US grandi e piccole) hanno varcato l'oceano: "l'80% delle perdite causate dalla pirateria avviene fuori dai confini nazionali," si legge in un rapporto diffuso lo scorso anno. Recentemente è stata anche costituita la Software Publishers Association Europe che sta per lanciare sul mercato francese un video "educativo" la cui produzione è costata 20.000 dollari. Insomma, una specie di sconfinamento nella "riserva di caccia" finora riservata alla più prestigiosa BSA: un pugno di multinazionali, tra cui Aldus, Autodesk, Microsoft, Lotus, Apple che pagano una quota associativa definita "proibitiva" da un portavoce dell'organizzazione stessa. Nonostante vada quindi crescendo una certa inimicizia tra i due gruppi, il fronte del "si copyright" pare unito nella repressione anti-pirateria soprattutto in quelle aree dove la percentuale di programmi illegalmente copiati è altissima (99% in Indonesia e Kuwait, 94% in Polonia e Cina). E intanto un sondaggio dello scorso anno rileva che in USA la percentuale di software pirata è del 35%, salendo fino al 58% in Europa e al 68% in Asia.
Inutile aggiungere che quando si arriva al processo in aula, la vittoria legale comprensiva di abbondanti risarcimenti-danni è assicurata da un ben remunerato nugolo di espertissimi avvocati. Come è avvenuto anche recentemente ad Helsinki, dove la Business Software Alliance ha ottenuto la condanna di due dirigenti di una compagnia locale a pesanti pene (60 giorni di carcere e 72.000 dollari di multa) per aver deliberatamente usato cope illegali di software AutoCAD.

Anche la questione intorno alle norme a tutela della proprietà intellettuale è al centro di bollenti discussioni. Finora le leggi nazionali riguardavano esclusivamente la giustizia civile (si poteva esser condannati a pagare i danni, non al carcere), ma nel 1989 c'è stato un un rapido giro di vite nella legislazione statunitense: le violazioni commerciali per oltre 10 copie e per un valore superiore a 2.500 dollari sono state fatte rientrare nel codice penale federale si rischiano multe, carcere o entrambi.
Un approccio pesante che va diffondensi anche nel resto nel mondo, come il caso finlandese di cui sopra, ma che non trova però tutti d'accordo. Lo prova la sentenza assolutoria di qualche mese addietro nei confronti di David LaMacchia, lo studente del MIT che aveva messo gratuitamente a disposizione degli utenti della propria BBS alcuni noti programmi commerciali. Nella motivazione della sentenza il giudice, pur redarguendo duramente il comportamento dello studente, fa esplicito riferimento all'errore del PM nel volerlo perseguire per reati che prevedevano il carcere anziché per un'eventuale rimborso-danni, seppur esoso.
Il che ci riporta al tema iniziale, ovvero a quei complessi aspetti sociali, culturali e filosofici in continuo mutamento a monte del copyright, che non possono essere affrontate con strumenti legislativi ultra-repressivi o stabiliti in epoche passate. Ecco ancora Barlow: "Nel mondo fisico, gli autori non erano pagati per le idee in sè, ma per la capacità di realizzarle concretamente. In altri termini, il copyright non proteggeva il vino ma la bottiglia che lo conteneva. Con l'avvento dell'era digitale, non c'è più alcun bisogno di contenitori materiali; le merci-informazioni di oggi sono quasi pensiero puro, fatti di tanti uno e zero che vagano in un ambiente 'là fuori alla velocità della luce. Ci stiamo avviando, cioè, verso un'informazione che è vissuta ma non posseduta, propagata ma non semplicemente distribuita, autoreplicantesi e biodegradabile ma non duratura e riproponibile una nuova forma di vita indipendente, in grado di avere relazioni proprie e cambiamenti autonomi."

Si, ma in pratica? Sono in molti a ritenere che l'economia del futuro si baserà sull'inter-relazione piuttosto che sul possesso, così come la protezione del proprio lavoro intellettuale sarà affidata ad etica e tecnologia anziché a leggi ed apparati repressivi. E saranno i sistemi d'encriptazione individuali ad assicurare le basi tecnologiche per l'attuazione di tali congegni protettivi nelle comunicazioni elettroniche globali. Qualcosa di molto simile a quanto è scritto nel Manifesto crypto-anarchico redatto da Timothy May: "Proprio come un'invenzione apparentemente minore come il filo spinato ha reso possibile il recintare ranch e fattorie, alterando per sempre il concetto di terra e di proprietà, così anche la scoperta apparentemente minore di una branca arcana della matematica (la crittografia) diventerà come le cesoie da metallo che smantelleranno il filo spinato attorno alla proprietà intellettuale."
Pur senza per ora arrivare a tanto, è possibile intravvedere alcuni segnali verso una generale riconsiderazione, a partire dalle proposte di allargamento al mondo online di quel cosidetto "uso consentito" (fair use) che già oggi permette la duplicazione di pubblicazioni e opere varie per casi ristretti e non a fine di lucro (ambienti didattici e di ricerca, uso personale, prestiti da biblioteche, brevi citazioni). Una proposta simile è infatti compresa nella recente bozza di studio diffusa dal gruppo di lavoro sulla proprietà intellettuale istituito all'interno della National Information Infrastructure Task Force. In pratica si suggerisce di includere nel Copyright Act statunitense (rivisto per l'ultima volta nel 1976) anche il "diritto di distribuzione pubblica mediante trasmissione, inclusa quella via computer." Secondo il testo provvisorio, la distribuzione elettronica rimarrebbe sì soggetta al copyright, ma rientrebbere nel "fair use" qualora non si superassero le dieci copie trasmesse. Viene altresì richiesta la cancellazione delle attuali norme che impediscono l'importazione per via elettronica di opere straniere protette da copyright.
Su alcuni punti cruciali (verifica delle copie trasmesse e modalità di riscossione delle quote dovute) il documento attuale non dà risposte, ma il gruppo di lavoro sta raccogliendo commenti e suggerimenti esterni: se ne discuterà pubblicamente in una conferenza sulla proprietà intellettuale organizzata tra breve nell'ambito didattico-educativo. Sono poi in avanzata fase di progettazione iniziative come "Information Marketplace," il sistema messo a punto dalla Folio Corporation che presto dovrebbe consentire agli editori elettronici di vendere piccole quantità d'informazione agli utenti di Internet, previa registrazione e comunicazione ai legittimi detentori del copyright. Anche qui va ancora risolta l'importante questione relativa a modalità e gestione dei pagamenti dovuti, ma va notato come un approccio differenziato ed "aperturista" pare diffondersi su Internet. Come la recente iniziativa della casa editrice Peachpit Press (Berkeley, California) che ha lanciato un nuovo libro contemporaneamente in libreria e gratis sul Web gratis, connessioni dirette incluse. Oppure la diffusione di programmi demo a tempo come il recente NetPhone, software che consente di fare chiamate intercontinentali su Internet (per 60 secondi col demo gratuito). E ancora, il successo dell'Electronic Newsstand, che consente l'accesso gratuito a sommari, articoli scelti e notizie varie riprese da decine di riviste e newsletter di ogni settore. Diventa infine sempre più facile acquistare software direttamente online attraverso specifici siti Web messi su da aziende quali Software On-Line e CyberSource. Non mancano però le note negative: è di fine marzo la notizia che i programmatori radio-televisivi muniti di regolare permesso per la ridistribuzione del materiale di agenzie-stampa come Associated Press e Reuters, non possono poi diffonderlo all'interno dei loro servizi su Internet. Idem per il copyright musicale, che è ancora più scabroso, poiché editori, artisti, compositori e compagnie discografiche hanno regole sul diritto d'autore molto diverse tra loro. E su tali questioni non esiste alcun precedente legale relativo ad Internet.

Stesse contraddizioni e problemi anche nel settore industriale. Mentre aziende d'ogni tipo e dimensione (multinazionali comprese) continuano come sempre a lottare aspramente nelle aule dei tribunali a difesa di copyright e brevetti su componenti, codici e perfino semplici parole, vale la pena di segnalare una tendenza verso il possibile cambiamento. Ci riferiamo alla sentenza di metà marzo emessa da una corte d'appello US contro la Lotus (opposta alla Bordland), che ha definito "materiale non soggetto a copyright" la struttura dei menu del noto software Lotus 1-2-3. Costituendo un precedente per futuri casi simili, tale sentenza è vista da esperti legali ed industriali come fatto propulsivo per un settore che, non più tenuto sotto il capestro d'inopportune e innumerevoli denunce a difesa del copyright, possa avere una maggiore crescita creativa e produttiva. Possibile effetto negativo della decisione giudiziaria, è stato fatto però notare, potrebbe rivelarsi il considerevole aumento delle richiesta da parte degli sviluppatori di brevetti su ogni loro creazione, attivando così pratiche che richiedono anche 2-3 anni di tempo e fino a 100.000 dollari di spese. Fatto che, tra l'altro, potrebbe causare l'ancor più accentuato assottigliamento della schiera di sviluppatori di software indipendenti.
Un'ultima citazione spetta al recentissimo studio apparso su Internet (e incluso nel numero autunnale della pubblicazione accademica "Philosophy and Social Action") con un titolo più che esplicito: "Contro la proprietà intellettuale." Scrive Brian Martin, ricercatore del Dipartimento di scienza e tecnologia dell'Università di Wollongong, Australia: "Sono numerose le conseguenze negative insite nel fatto di possedere le formazioni, in particolare ritardo nella diffusione delle innovazioni ed emarginazione dei paesi poveri. L'alternativa alla proprietà intellettuale è che essa non venga più posseduta, com'è il caso delle espressioni linguistiche che usiamo ogni giorno. Occorre sviluppare strategie concrete per opporsi alla proprietà intellettuale, quali disobbedienza civile, diffusione di informazioni senza copyright e soprattutto sostenere una società maggiormente basata sulla cooperazione anziché sulla competizione."

Difficile quindi azzardare conclusioni: sul tappeto restano domande scottanti a cui sarà difficile trovare risposte soddisfacenti in tempi brevi, e meno che mai sul versante legislativo-repressivo. Riuscirà il copyright a sopravvivere all'avvento dell'era digitale? Potrà Internet resistere contro norme a difesa del copyright online? E non è forse il caso di ammettere, con Barlow, che "tutto quel che abbiamo sempre saputo sulla proprietà intellettuale è sbagliato...."?
(Aggiornamento di un articolo apparso sul numero di Maggio '95 del mensile Virtual - 26.06.95).


Bernardo Parrella, giornalista free-lance e collaboratore di Agorà Telematica, vive e lavora a San Francisco (oltre che in cyberspace: berny@well.com)


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