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ATTUALITÀ

30 settembre 1996
Il futuro assetto delle telecomunicazioni in Italia

di Manlio Cammarata

I disegni di legge governativi presentati nel mese di luglio '96 al Senato e il decreto-legge del 28 agosto sono la base del futuro assetto delle telecomunicazioni nel nostro paese. In Informatica e società sul n. 166 di MCmicrocomputer è stato pubblicato un primo commento; qui riportiamo i testi dei due ddl e un'analisi un po' più dettagliata. Come al solito, ogni intervento da parte dei lettori è benvenuto. Basta fare clic sul pulsante qui sotto e inviare una mail, seguendo le istruzioni.

PER INTERVENIRE

Il disegno di legge S1021
Il disegno di legge S1138
"Una tariffa ridotta per gli usi telematici"...
Sesso & TV


Società dell'informazione:
l'Italia può attendere?

La "digital collision", la convergenza digitale tra computer e TV è incominciata. Stanno per comparire i primi televisori Internet-compatibili, c'è la "pay-TV", mentre immagini e suoni viaggiano sulla Rete delle reti. Questa è la società dell'informazione, che ha bisogno di leggi adeguate. Ma i progetti in discussione non lo sono.

1. luglio '96: liberalizzazione delle infrastrutture di telecomunicazione; 27 agosto '96: scadenza dei termini per modificare la legge Mammì; primavera '97: rischio di bancarotta per l'Iri se non sarà venduta la Stet; 31 dicembre '97: fine di tutti i monopoli sulle telecomunicazioni. Quattro scadenze, improrogabili in forza delle disposizioni dell'Unione europea, quattro occasioni irripetibili per avviare il nostro paese su quelle "autostrade" che i nostri partner e concorrenti percorrono a tutta velocità da almeno due anni.
Ma al casello, per restare nel paragone autostradale, il semaforo è rosso e la sbarra è abbassata. Manca infatti una visione aggiornata e complessiva dei problemi da risolvere, manca ancora quel "progetto-paese" del quale si è favoleggiato per la prima volta qualche mese fa, al Summit di Napoli sulle telecomunicazioni (vedi MCmicrocomputer n. 165). Così le leggi non nascono sulla base di un progetto generale, di largo respiro e proiettato nel futuro, ma sono provvedimenti tampone, finalizzati all'emergenza, alla soluzione di problemi forse in parte già superati. E, soprattutto, non tengono conto delle situazioni che si sono create in tempi recenti e che potranno diventare emergenze nel prossimo futuro.

Vediamo come si presentava la situazione all'inzio dell'estate. Ai primi di luglio in ministro delle telecomunicazioni, Maccanico, annunciava che era quasi pronto un progetto globale per televisione e telecomunicazioni e ne anticipava le linee generali. L'approvazione del disegno di legge era urgente, perché il 27 agosto scadeva il termine stabilito dalla Corte costituzionale per mettere fine alla situazione di duopolio televisivo sancita dalla "legge Mammì": Rai e Mediaset, secondo la sentenza n. 420 del 7 dicembre '94, non possono avere più di due reti a testa, e quindi dovranno liberarsi di una rete ciascuna per rendere disponibili le frequenze ad altri soggetti. L'altra emergenza era, ed è, la vendita della Stet, che deve dare ossigeno alle asfittiche casse dell'Iri ed evitare la bancarotta che l'Unione europea potrebbe di fatto rendere invitabile nella primavera del prossimo anno. È necessario sottolineare che la vendita della finanziaria per le TLC non è premessa indispensabile per la fine del monopolio, perché anche una società a prevalente partecipazione pubblica può operare in regime di libero mercato; l'urgenza è data solo da motivi finanziari. Si aggiunga che l'operazione di vendita non richiede particolari deliberazioni del Governo o del Parlamento (la Stet è una società per azioni come un'altra), ma è opportuno che la privatizzazione avvenga sulla base di regole certe per il mercato delle TLC, regole che devono essere dettate da un'ancora inesistente Autorità di settore.

Il decreto d'agosto

Il progetto del Governo era lungo e complesso, sarebbe riuscito il Parlamento ad approvarlo prima del 27 agosto? Sembrava molto difficile, e così il testo veniva spezzato in due: un primo disegno di legge, presentato al Senato il 19 luglio, che istituisce la "Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni" e introduce norme anti-trust che fanno piazza pulita della legge Mammì; il secondo, presentato il 25 luglio, che ridisegna l'assetto globale delle TLC in Italia. Ma l'accordo politico non si trovava neanche sul primo DDL, e il 28 agosto il Governo emanava un decreto legge che costituiva una semplice proroga della situazione esistente.
Vediamo ora i punti essenziali dei tre testi.

In tutto il quadro della riforma delle TLC c'è un'espressione chiave: anti-trust. Significa in primo luogo che nessuna azienda o gruppo di aziende può avere quota di mercato tale da limitare le possibilità di scelta degli utenti e la libertà di impresa di altri soggetti. Questo è il cardine della riorganizzazione del mercato e il punto fondamentale della sentenza della Corte costituzionale. Ed è esattamente il principale difetto del nostro sistema attuale: la presenza dei due "giganti" Rai e Mediaset, che blocca il mercato. Ma è chiaro che una efficace normativa anti-trust danneggia a breve termine soprattutto Mediaset (per la Rai il discorso è più complesso, perché coinvolge la tematica del servizio pubblico). Così alla fine di luglio il lavoro delle lobby e diversi interessi politici bloccavano, oltre al ddl governativo, anche un provvedimento d'urgenza che applicasse, sia pure in misura ridotta, il dettato della sentenza n. 420. Così il 28 agosto il Governo approvava un provvedimento di soli due articoli, che congelava lo status quo e rimandava a una serie di regolamenti, da emanare entro 90 giorni, l'applicazione delle direttive europee sulla liberalizzazione delle TLC. Un decreto, anzi un decretino, che non significa nulla, se non il proseguimento della situazione attuale. Per quanto tempo?
L'art. 1 del decretino stabilisce che In attesa della riforma complessiva dl sistema radiotelevisivo e delle telecomunicazioni, da attuare nel rispetto delle indicazioni date dalla Corte costituzionale con sentenza 7 dicembre 1994 n. 720 è consentita ai soggetti che legittimamamente svolgono l'attività radiotelevisiva alla data del 27 agosto 1996 la prosecuzione dell'esercizio: a) della radiodiffusione sonora in ambito nazionale e locale, nonchè della radiodiffusione televisiva in ambito locale fini al 27 agosto 1997; b) della radiodiffusione televisiva in ambito nazionale fino al 31 gennaio 1997.
Tutto qui. Ora si deve riflettere sul fatto che la sentenza n. 420 ha stabilito la che l'attuale ordinamento è incostituzionale e che deve cessare entro il 27 agosto '96. Prorogarlo significa andare contro il dettato della Corte e quindi il decretino potrebbe essere a sua volta incostituzionale. Ma questo "difetto" è di fatto irrilevante, perché i tempi per una decisione della stessa Corte su un'eccezione di incostituzionalità (che deve essere sollevata nell'ambito di un'azione giudiziaria) sono certamente molto più lunghi dei 60 giorni entro i quali un decreto deve essere convertito in legge da parte del Parlamento. Siamo probabilmente di fronte a una situazione di assoluta illegalità, ma non possiamo farci nulla.

Il vero problema è un altro. Dal dicembre del '94 all'agosto del '96 sono passati quasi due anni, un tempo più che sufficiente per predisporre e iniziare, se non per portare a termine, la riforma del sistema su serie basi anti-trust e in vista della "convergenza digitale", ormai in atto, tra televisione e telecomunicazioni. Nulla è stato fatto, per il semplice motivo che agli interessati conviene che lo status quo sia mantenuto più a lungo possibile. È vero che un rapido smantellamento dell'assetto consolidato può causare un danno economico agli operatori coinvolti, ma questo danno può essere limitato, se non evitato del tutto, con un passaggio graduale verso il nuovo sistema. Non bisogna dimenticare che le future regole anti-trust limiteranno le quote di mercato che possono essere coperte da singoli operatori, ma l'avvento della TV digitale, in particolare nelle diverse forme a pagamento, apre nuove e più vaste opportunità di business. Quindi medio e lungo termine le opportunità di business sono molto più grandi di quelle attuali. Una visione non miope del quadro d'insieme dovrebbe suggerire agli interessati una decisa azione per accelerare, non per ritardare l'avvento del nuovo sistema. Invece si solleva la questione del danno immediato e si blocca più a lungo possibile la situazione; quando la legge e la decenza imporranno il cambiamento si reclameranno tempi lunghi. Questo significa che la fine della "anomalia italiana" nel settore radiotelevisivo è meno vicina di quanto si possa sperare e che i vantaggi del nuovo corso sono al di là da venire.

L'art. 2 del decretino solleva problemi molto più gravi di quanto possa apprire a prima vista: 1. Su proposta del Ministro delle poste e delle Telecomunicazioni, [...] sono adottati, entro novanta giorni dall'entrata in vigore del presente deceto-legge, i regolamenti per l'attuazione: a) della direttiva 95/51 CE riguardante l'uso di reti televisive via cavo per la fornitura di servizi di telecomunicazioni già liberalizzati; b) della direttiva 95/62 CE sull'applicazione del regime di fornitura di una rete aperta (ONP) alla telefonia vocale; c) della direttiva 96/19 CE che modifica la direttiva 90/388 CE al fine della completa apertura alla concorrenza dei mercati delle telecomunicazioni. 2. Con i regolamenti di cui al comma 1 si riconosce: a) la soppressione dei diritti esclusivi e speciali; b) il diritto di ciascuna impresa di svolgere servizi di telecomunicazioni e installare reti di telecomunicazioni; c) la sottoposizione delle imprese ad autorizzazione, salve le concessioni previste da legge. 3. I regolamenti di cui al presente articolo stabiliscono, secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità, codizioni, requisiti e procedure per il rilascio delle autorizzazioni o concessioni, loro durata, onerosità, obblighi di interconnessione, di accesso e di fornitura del servizio uni versale.
Se si legge con attenzione, ci si accorge che in poche righe sono elencati i principali aspetti della liberalizzazione delle TLC: sembra quasi un "Bignami" del Telecommunications Act degli USA! Il primo punto per ora è inutile, perché in Italia non ci sono reti televisive via cavo, e le reti in costruzione nascono per la telefonia e il traffico dei dati prima che per la TV. Il secondo si riferisce a un progetto della UE, la Open Network Provision che sta per essere superato dalla naturale evoluzione delle reti. Invece il punto c) è importante, perché la direttiva 96/19 modifica la 90/388, applicata con il famigerato decreto legislativo 103/95: è quello della "liberalizzazione al contrario", di cui tanto ci siamo occupati nei mesi scorsi, perché pone vincoli burocratici e balzelli alle attività telematiche.
Andiamo avanti e troviamo la soppressione dei diritti esclusivi e speciali (cioè di alcuni pilastri del monopolio), la fine dei monopoli sulle reti e sui servizi e la conferma del doppio regime concessorio/autorizzatorio, problema complesso che nasconde la voltà di liberalizzare il meno possibile (come ha osservato anche il Garante della concorrenza). Infine gli obblighi di interconnessione, accesso e fornitura del servizio universale, che sono tre aspetti dello stesso problema, fondamentale per il mercato liberalizzato.

La trappola del 31 gennaio

Ma si può affidare a semplici regolamenti la definizione di principi di tale importanza? Negli USA intorno a questi temi si è acceso un dibattito durato due anni, che ha portato al fondamentale Telecommunications Act of 1996; in Italia ci sono all'esame del Parlamento due disegni di legge che dovrebbero avviare il nuovo sistema (e ancora non bastano), e si pensa di risolvere tutto con un pugno di regolamenti? Senza contare che molti degli aspetti elencati nel decretino d'agosto sono regolati da leggi, e che un regolamento non può modificare una legge. Non basta un regolamento, per esempio, per modificare il 103/95: occorre una legge o un decreto legislativo (che a sua volta deve essere previsto da una legge). Il tentativo di applicare le disposizioni europee per regolamento, invece che per legge, è senza dubbio lodevole, perché consente di accorciare i tempi e non essere sempre in ritardo sugli altri paesi dell'Unione, ma pone problemi giuridici forse insormontabili allo stato attuale della legislazione.
Per fortuna il termine previsto per i regolamenti è di 90 giorni, il Parlamento deve convertire in legge il decreto entro 60. Dobbiamo augurarci che si accorga che la materia è già contentenuta nei due disegni di legge presentati in luglio e che elimini questo assurdo articolo 2.

Tutto questo ci conduce all'esame del progetto governativo presentato al Senato, progetto articolato in due distinti disegni di legge, per i motivi esposti all'inizio. Il primo, che porta il numero S1021, si intitola "Istituzione dell'autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni e norme sul sistema radiotelevisivo"; il secondo, indicato con il numero 1138, "Disciplina del sistema delle telecomunicazioni". La divisione in due provvedimenti distinti comporta una serie di problemi, perché alcune importanti disposizioni sono divise tra i due testi e quindi la discussione parlamentare potrebbe portare a a norme discordanti o ridondanti. In particolare sono divise a metà le norme anti-trust: per le reti televisive nazionali nel 1021, per quelle locali e la radiofonia nel 1138. Assurdo, ma giustificato dall'urgenza di approvare subito le norme anti-trust entro il 27 agosto. Posto che questa urgenza non c'è più, il più elementare buon senso suggerirebbe di unificare i due disegni di legge in uno solo, semplificando anche l'iter parlamentare.
Ma qui potrebbe scattare una trappola: quella del 31 gennaio, data di scadenza della proroga per l'emittenza televisiva nazionale, che potrebbe rendere necessaria la discussione accelerata del primo ddl. E resta anche l'urgenza di varare l'Autorità, sia per iniziare il vero riordinamento del settore, sia per procedere alla vendita della Stet. Se le Camere non riescono ad approvare tutto in tempo utile, ritorna l'opportunità di mantenere separate le due parti del progetto legislativo. C'è un'altra possibilità: unificare i due ddl per quanto riguarda le norme generali, riportando alla necessaria unità le disposizioni antitrust, e anticipare solo l'istituzione dell'Autorità, con un'ulteriore proroga delle attuali concessioni televisive nazionali fino al 27 agosto '97: il vantaggio sarebbe nella coerenza delle disposizioni anti-trust e nella partenza simultanea del nuovo assetto per l'emittenza televisiva nazionale e locale; lo svantaggio è fin troppo evidente: prolungare di altri sette mesi l'assetto perverso della legge Mammì, con almeno un altro anno per il passaggio al nuovo regime. Purtroppo questo è l'interesse di Mediaset, fin troppo rappresentato nelle aule parlamentari e nei loro dintorni.
E ora vediamo in estrema sintesi il contenuto dei due disegni di legge. Procediamo però per argomenti, come vuole la logica, e non seguendo l'ordine dei testi.

L'Autorità per le garanzie

Il ddl S1021, art. 1. istituisce l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, di seguito denominata "Autorità", la quale opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio e di valutazione. L'autorità è composta da un presidente (nominato dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo), da due commissioni di quattro membri ciascuna, indicati dalle Camere, e da un consiglio, costituito dal presidente e da tutti i commissari. Il presidente fa anche parte di ambedue le commissioni.
La prima, denominata "Commissione per le infrastrutture e le reti", si occupa del piano di ripartizione delle frequenze, della sicurezza, del registro degli operatori, dei criteri di accesso, delle tariffe, del servizio universale, e così via. Alcune disposizione meritano una riflessione. La prima di queste riguarda i decodificatori, indispensabili per la "pay TV", che sono stati oggetto di accese controversie in ambito franco-tedesco. La commissione, sentito il parere del Ministero delle poste e delle telecomunicazioni e nel rispetto della normativa comunitaria, determina gli STANDARD per i decodificatori in modo da favorire la fruibilità del servizio. Qui ci troviamo di fronte a un possibile problema per gli utenti, perché arrivano ora nei negozi italiani i primi decodificatori per vedere le partite di calcio: saranno del tipo che poi diventerà standard? Rischiamo di dover acquistare diversi decodificatori? L'Unione europea non si è ancora pronunciata, anche se gli accordi franco tedeschi dovrebbero aver indicato lo standard da seguire.
Un altro argomento della massima importanza è al comma 2, lettera A. La prima commissione. 9) individua, in conformità alla normativa comunitaria, l'ambito oggettivo e soggettivo degli eventuali obblighi di servizio universale e le modalità di determinazione e ripartizione del relativo costo; 10) individua i servizi di telecomunicazione, diversi da quelli rientranti nell'obbligo di servizio universale, che devono essere offerti in modo omogeneo su tutto o soltanto su parte del territorio nazionale. Questa è una delle basi del sistema di telecomunicazioni di una democrazia: occorrono regole per stabilire chi e come deve fornire i servizi di telecomunicazioni, a parità di condizioni con gli altri utenti, anche a coloro che non è conveniente raggiungere nell'ottica di profitto di un'azienda privata. È il caso delle piccole comunità o delle utenze telefoniche isolate, il cui collegamento è costoso e poco redditizio. Il progetto del Governo prevede il finanziamento del servizio universale attraverso un fondo creato con i versamenti degli operatori.
La seconda commissione si chiama "Commissione per i servizi e i prodotti" ed è competente per tutto quanto riguarda i contenuti, dal diritto di rettifica delle informazioni alla pubblicità, alla tutela dei minori, fino alla correttezza delle informazioni politiche e della diffusione dei risultati dei sondaggi. Anche qui c'è un punto di grande interesse: questa commissione determina con apposita convenzione gli obblighi dei concessionari di servizio pubblico e verifica l'attuazione delle finalità di servizio pubblico nella suddetta convenzione e in tutte le altre che vengono stipulate tra concessionarie del servizio pubblico e amministrazioni pubbliche. Qui si dà per scontato che il servizio pubblico radiotelevisivo continui in regime di "concessione", il che contrasta con gli orientamenti europei.
Il consiglio, che è composto dagli otto componenti delle commissioni e dal presidente, ha compiti di promuovere studi e ricerche, suggerire interventi al Governo, adottare i regolamenti per le concessioni e le autorizzazioni, determinare i relativi canoni è così via. Inoltre, come recita il punto 9 della lettera c) segnala all'Autorità garante della concorrenza e del mercato la sussistenza di ipotesi di violazione delle disposizioni della legge 10 ottobre 1990, n. 287, commesse da operatori del settore delle comunicazioni. Per questo deve anche sorvegliare la separazione contabile e amministrativa degli operatori che offrono trasporto e servizi, o servizi diversi, e controllare le operazioni societarie che possono ledere i principi anti-trust. Entro il 30 novembre di ogni anno consegna al Presidente del Consiglio dei Ministri una relazione per il Parlamento sull'attività svolta e sui programmi di lavoro.
È molto importante anche il punto 10: il Garante svolge le altre funzioni già attribuite della legge al Garante per la radiodiffusione e l'editoria. Non si dice però che il Garante per la radioffusione e l'editoria è abolito. Solo il comma 17 prescrive: Entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, su proposta del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, sono emanati uno o più regolamenti, ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, per individuare le competenze trasferite, coordinare le funzioni dell'Autorità con quelle delle pubbliche amministrazioni interessate dal trasferimento di competenze, riorganizzare o sopprimere gli uffici di dette amministrazioni e rivedere le relative piante organiche. A decorrere dalla data di entrata in vigore dei regolamenti sono abrogate le disposizioni legislative e regolamentari che disciplinano gli uffici soppressi o riorganizzati, indicati nei regolamenti stessi. Qui c'è una delle solite stranezze legislative: non si possono abolire con i regolamenti gli organismi istutuiti da una legge, allora l'abolizione è sancita da questa legge, ma sulla base delle norme dei regolamenti in essa previsti. Sicché abbiamo una legge che applica le disposizioni di un regolamento, e per di più futuro. Italia, patria del diritto!
Il quadro non diventa più chiaro se si va a vedere il secondo ddl, dove sono indicati più in dettaglio i compiti dell'Autorità sia per quanto riguarda il rilascio di concessioni e autorizzazioni, sia per le sue competenze in materia di anti-trust, che in qualche punto potrebbero entrare in conflitto con quelle dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato.

Il nuovo assetto del mercato

E siamo quindi al secondo punto fondamentale del progetto governativo: i criteri per la suddivisione tra gli operatori delle risorse disponibili, cioè il modello del mercato delle TLC, in particolare per la la televisione e la radio. La prima e più importante risorsa che deve essere distribuita è costituita dalle frequenze per la radiodiffusione terrestre. Le bande assegnate a questo settore consentono l'utilizzo di un numero di canali relativamente limitato. Relativamente, perché è vero che i canali sono diverse decine, sia per la radio, sia per la televisione, ma se vengono assegnate in modo di favorire solo alcuni operatori, il libero mercato viene seriamente compromesso o scompare del tutto. Lo vediamo oggi, con le regole della legge Mammì, che non permettono a un operatore nazionale come Telemontecarlo di coprire tutto il territorio. Questo limite si riflette sulle tariffe della pubblicità, che per questa emittente non possono raggiungere livelli remunerativi. La conseguenza finale è un grave limite alla libertà di comunicazione.
Ma la legge Mammì era basata soltanto sulla distribuzione delle frequenze disponibili, mentre le nuove regole prendono correttamente in considerazione anche la "risorsa pubblico" e la risorsa finanziaria. Si stabilisce cioè che un singolo operatore non possa controllare più di una determinata percentuale dell'emittenza complessiva e non possa acquisire più di una percentuale della "torta" costituita dalla pubblicità, dalle sponsorizzazioni, dalle televendite, insomma da tutto ciò che costituisce attualmente l'insieme degli introiti delle emittenti.
Non entriamo nel dettaglio delle cifre contenute nei due disegni di legge, ampiamente illustrate dai mass media, perché a noi un certo numero di punti percentuali in più o in meno non interessa. L'importante è capire il meccanismo che dovrebbe garantire il corretto funzionamento del mercato dell'informazione, quello che nei prossimi anni è destinato a produrre più ricchezza di tutti gli altri settori dell'economia, ed è essenziale soprattutto per la crescita sociale e culturale di tutte le nazioni.
Il progetto generale è contenuto nel ddl S1138, mentre le regole per l'emittenza televisiva nazionale sono "stralciate" nell'S1021. Incominciamo dunque dal secondo testo presentato al Senato.
Il Titolo 1 si intitola "Norme di principio"; il primo articolo enuncia i soliti principi generali della tutela delle persone, delle libertà e del mercato, ma un punto merita particolare attenzione attenzione: il comma 3 afferma che La disciplina del sistema delle comunicazioni tiene conto del processo di convergenza tecnologica tra il settore delle telecomunicazioni e quello radiotelevisivo considerando congiuntamente l'assetto delle reti di diffusione e i servizi erogati. Vedremo più avanti come di fatto questa affermazione rimanga sulla carta.
L'articolo 2 si intitola "Piano di ripartizione, bacini d'utenza e piani di assegnazione delle frequenze". Il punto essenziale è al comma 2: Ai fini della predisposizione dei piani nazionali di assegnazione delle frequenze per ciascun servizio l'Autorità [...] suddivide il territorio nazionale in bacini di utenza. Per il servizio radiotelevisivo i bacini di utenza sono definiti secondo il numero dei potenziali utenti, la diffusione dei residenti, le condizioni geografiche, urbanistiche, ambientali, socioeconomiche e culturali di ciascuna zona. Il comma 4 prevede che lo schema del piano di assegnazione sia sottoposto agli enti locali; i comuni devono adeguare i loro piani urbanistici in funzione della localizzazione degli impianti.
Si passa poi al Titolo 2, "Disciplina della telecomunicazioni", il punto cruciale del progetto. Il lungo articolo 3 al comma 1 definisce come rete di telecomunicazioni una infrastruttura o un insieme di infrastrutture che permetta la trasmissione di segnali analogici o numerici, tra punti terminali fissi o mobili, mediante mezzi trasmissivi di qualsiasi tipo. Il comma 2 va letto con attenzione: L'installazione non in esclusiva delle reti di telecomunicazioni via cavo o che utilizzano frequenze terrestri è subordinata con decorrenza 1 gennaio 1997 al rilascio di concessione nelle forme di cui al presente articolo. A partire dalla stessa data l'installazione di stazioni terrene per servizi via satellite, l'esercizio delle reti di telecomunicazioni e la fornitura di servizi di telecomunicazioni sono subordinati al rilascio di autorizzazione nelle forme di cui al presente articolo. Si distingue dunque tra "concessione" e "autorizzazione": la prima è riservata all'installazione delle reti via cavo o su frequenze terrestri (sono quindi escluse le frequenze satellitari), la seconda all'esercizio delle reti e alla fornitura di servizi. La differenza è sostanziale, perché la concessione presuppone una riserva dello Stato sull'oggetto della concessione stessa, e comporta quindi una serie di conseguenze non indifferenti. In pratica, e semplificando, il titolare di una concessione agisce come se fosse lo Stato o l'ente locale, a seconda dell'ambito d'azione. Si legge infatti al comma 8: Il rilascio della concessione per l'installazione delle reti di telecomunicazioni e di radiodiffusione previsti nel piano di assegnazione costituisce dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle relative opere. Le aree acquisite entrano a far parte del patrimonio indisponibile del comune
È interessante anche il comma 3, che prevede la concessione da parte dell'Autorità per le reti via cavo a lunga distanza e delle relative infrastrutture di giuzione con le reti minori; le concessioni per queste ultime sono invece rilasciate dagli enti locali. Altri due aspetti rilevanti sono contenuti nei commi 9 e 11. Il comma 9, punto d) prevedevia prioritaria e in quanto possibile, l'utilizzo di dotti esistenti per la posa dei cavi cioè che si devono fare meno scavi possibile, utilizzando anche le fognature, come ha proposto il comune di Bologna seguendo l'esempio di alcune città del Nord Europa. Non si capisce bene perché la Stet continui a mettere sottosopra le strade per posare la fibra ottica nelle città.

Integrazione "verticale" e servizio universale

Uno dei problemi più delicati delle telecomunicazioni è la cosiddetta "integrazione verticale": questa è la possibilità che chi dispone delle reti possa fornire anche i contenuti, direttamente o attraverso società controllate e, al contrario, chi fornisce servizi possa installare o gestire reti. Il problema è che chi trasporta i segnali può vendere i servizi con azioni di dumping, cioè fornire i servizi a un costo più basso di quello che possono praticare i soggetti che offrono solo questi, e che devono quindi pagare il trasporto agli esercenti delle reti. Il divieto di integrazione verticale serve dunque a impedire che si possano creare ostacoli all'attività dei fornitori di servizi di minori dimensioni ed è stato il cardine della legislazione USA dell'86. Con il Telecommunication Act of 1996 è stato possibile eliminare questa limitazione, grazie alla presenza sul mercato di molti fornitori di contenuti di grandi dimensioni e a una disciplina anti-trust molto efficace. In Gran Bretagna vige la "regolamentazione asimmetrica", grazie alla quale l'integrazione verticale è consentita solo agli operatori in ambito locale e non a British Telecom.
La regolamentazione asimmetrica è uno dei problemi più discussi in Italia in questo periodo. Per capire come lo risolve il "progetto Maccanico" bisogna leggere in ordine inverso diversi commi dell'art. 3. Si incomincia dall'ultimo, il 14: Sulle reti di telecomunicazioni possono essere offerti tutti i servizi di telecomunicazioni. Fino al 1. gennaio 1998 la concessionaria del servizio pubblico di telecomunicazioni conserva l'esclusività per l'offerta di telefonia vocale, fatta salva comunque la possibilità di sperimentazione da parte di soggetti specificamente autorizzati. Fino alla stessa data le società destinatarie di concessioni in esclusiva per telecomunicazioni non possono realizzare produzioni radiotelevisive. È quindi scontato il comma 13, che conferma alla società concessionaria del servizio pubblico di telecomunicazioni la vigente concessione con annessa convenzione, a eccezione dell'installazione delle infrastrutture a larga banda soggette alle concessioni di cui al comma 3, e rilascia alle società di cui al comma 11 apposita autorizzazione ai fini della fornitura al pubblico dei servizi di telecomunicazioni.
L'asimmetria è dunque limitata a un periodo molto breve, meno di un anno se si considerano i tempi di entrata a regime del nuovo ordinamento. Al passo del gambero leggiamo il comma 12: Gli impianti oggetto di concessione ai sensi dell'articolo 5 possono essere utilizzati anche per la distribuzione di servizi di telecomunicazioni. In tal caso, i destinatari di concessioni in ambito locale sono tenuti alla separazione contabile dell'attività radiotelevisiva da quella svolta nel settore delle telecomunicazioni, mentre i destinatari di concessioni per emittenti nazionali sono tenuti a costituire società separate per la gestione degli impianti.
Risiliamo quindi al comma 11: Le società che installano o esercitano le reti di telecomunicazioni e gli operatori che su tali reti forniscono servizi di telecomunicazioni, sono obbligati, dal 1° gennaio 1998, a tenere separata contabilità delle attività riguardanti rispettivamente l'installazione e l'esercizio delle reti nonché la fornitura dei servizi. Dunque con la separazione contabile si dovrebbero evitare azioni di dumping da parte dei gestori delle reti, che potrebbero fornire a un prezzo più basso gli stessi servizi che altri operatori forniscono prendendo le reti in affitto. La contabilità separata dovrebbe garantire che i servizi non vengano forniti in perdita, a danno dei concorrenti. La garanzia migliore resta comunque il divieto di integrazione fra il trasporto e i servizi, almeno per il periodo di tempo sufficiente a far crescere nuovi operatori, come è stato fatto negli USA. Di fatto la soluzione proposta favorisce Telecom Italia e gli altri grandi operatori già pronti a entrare sul mercato.
L'art. 4 pone le regole per "Interconnessione, accesso e servizio universale". I primi due punti non presentano problemi particolari, perché è sontato che gli operatori diano garanzia dell'interconnessione tra le reti e i servizi (ma si può interconnettere una rete con un servizio? Il senso è chiaro, ma la formulazione è tecnicamente sbagliata). Seguono poi le garanzie della comunicazione tra i terminali degli utenti, della non discriminazione, della proporzionalità degli obblighi e di diritti tra gli operatori e i fornitori (più correttamente si dovrebbe dire: "tra i fornitori del trasporto dei segnali e i fornitori dei servizi"). Il primo comma si conclude con il principio della remunerazione degli obblighi del servizio universale (che è descritto più avanti: non si potrebbero comporre i testi legislativi in modo più lineare?).
Il secondo comma esordisce in modo lapalissiano:I soggetti autorizzati all'offerta di servizi di telecomunicazioni ai sensi dell'articolo 3 hanno diritto di accesso alle reti. Questo diritto può essere limitato dall'Autorità per le solite ragioni di sicurezza e integrità della rete, o di interoperabilítà dei servizi, qualora ricorrano comprovati motivi di interesse generale di natura non economica. Quest'ultima frase non è chiarissima; di fatto sembra sostituire con un formula più elegante i motivi di ordine pubblico, difesa dello Stato eccetera, presenti in altre norme di questo tenore.
Il terzo comma affronta la discussa questione del "servizio universale". È questo uno degli argomenti sostenuti da chi si oppone alla privatizzazione dei gestori pubblici e alla liberalizzazione del mercato: ci sono utenze che a un libero imprenditore non conviene servire, come quelle in località isolate con pochi abitanti o in zone povere. Posto che non è giusto far pagare a questi utenti il maggior costo del loro collegamento, si pone il dilemma se ripartirlo su tutti gli abbonati o metterlo a carico dello Stato: secondo chi avversa la privatizzazione si risolve il problema affidando il servizio universale al gestore pubblico. Va ricordato che sono oggetto di fondate critiche le sperimentazioni commerciali di TV interattiva limitate ai quartieri ricchi delle grandi città (è il caso delle attuali "prove tecniche che la Stet conduce attraverso la Stream); per questa politica in Gran Bretagna è stata creata l'espressione redlining, tracciare un linea rossa tra chi può e chi non può acquistare i nuovi servizi. E questa linea rossa separa gli have dagli have not, come la recente sociologia americana distingue tra chi avrà i vantaggi della società dell'informazione e chi ne sarà escluso.
Afferma dunque il comma 3: Gli obblighi di fornitura del servizio universale, ivi inclusi quelli concernenti la cura di interessi pubblici nazionali, con specifico riguardo ai servizi di pubblica sicurezza, di soccorso pubblico, di difesa nazionale, di giustizia, di istruzione e di governo, e le procedure di scelta da parte dell'Autorità dei soggetti tenuti al loro adempimento, sono fissati secondo i criteri stabiliti dalI'Unione europea. Si rimanda dunque alla legislazione comunitaria, è comodo anche perché non c'è altra scelta. Il problema è: chi paga per il servizio universale? Su questo punto le indicazioni comunitarie sono ancora vaghe, e provvede quindi il comma 4: L'onere conseguente alI'adempimento degli obblighi del servizio universale è calcolato sulla base dei costi relativi. È costituito presso il ministero delle Poste e delle telecomunicazioni un apposito fondo per la remunerazione del servizio universale finanziato da una quota dei canoni relativi alle nuove concessioni e dei contributi di autorizzazione e da una quota delle tariffe di interconnessione dovute dalle società che abbiano raggiunto il fatturato determinato dalI'Autorità.

La nuova televisione

Passiamo all'aspetto che suscita il maggior interesse e, in questo momento, coinvolge i maggiori interessi: il nuovo ordinamento dei servizi radiotelevisivi, contenuto nell'art. 4 "Attività radiotelevisiva". Sono norme di grande rilevanza, perché nei prossimi anni la televisione via etere sulle frequenze terrestri avrà ancora un ruolo dominante nell'universo dei media, e su essa convergeranno in parte altri servizi telematici.
Il primo comma stabilisce una distinzione fondamentale tra le trasmissioni terrestri via etere da una parte e quelle via cavo e via satellite dall'altra: le prime sono soggette a concessione, le seconde ad autorizzazione. Ecco il testo: L'esercizio dell'attività radiotelevisiva mediante l'uso di frequenze terrestri è subordinato al rilascio di concessione. La concessione comprende l'installazione e l'esercizio degli impianti e dei connessi collegamenti di telecomunicazioni. Nell'atto di concessione è determinato il numero dei programmi che può essere diffuso da ciascuna emittente mediante le frequenze assegnate. L'esercizio dell'attività radiotelevisiva può essere svolto anche da soggetti che intendono utilizzare impianti di altre concessionarie radiotelevisive o di telecomunicazioni. La diffusione radiotelevisiva via cavo e quella via satellite originata dal territorio nazionale sono soggette ad autorizzazione rilasciata dall'Autorità.

Nei commi dal 2 al 7 dell'art. 3 viene posta ai titolari delle concessioni una serie di obblighi che nell'insieme configura un servizio pubblico: copertura del territorio, quote di autoproduzione, produzione italiana ed europea, completezza ed imparzialità dell'informazione, programmazione per disabili sensoriali e via discorrendo.
Il comma 8 introduce le diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato. Di che si tratta? In primo luogo della pay-TV, la televisione a pagamento, e poi di altri servizi ai quali l'accesso è subordinato a particolari condizioni, prima di tutto le trasmissioni in codice. Si prescrive: Le diffusioni radiotelevisive con accesso condizionato in ambito nazionale sono effettuate esclusivamente a mezzo di reti via cavo o da satellite: in ambito locale l'Autorità può consentire trasmissioni su bande di frequenza terrestri che dal Regolamento internazionale delle radiocomunicazioni sono comprese nelle gamme di frequenza di lunghezza d'onda centimetrica, millimetrica o decimillimetrica. Si tratta della cosidetta "televisione cellulare", recentemente sperimentata a Venezia; è difficile prevedere quali saranno i suoi sviluppi.
Questo comma e i successivi definiscono in termini di legge le polemiche sulla "TV generalista" e altre questioni del genere. Peccato che ciò non sia comprensibile a una prima lettura, ma che occorra un'attenta analisi del testo. Comma 9: Le emittenti che trasmettono con accesso condizionato possono effettuare trasmissioni in chiaro sino a un massimo di due ore al giorno durante le quali è consentito l'inserimento di forme di pubblicità o di sponsorizzazione per un tempo non superiore al 5 per cento della durata delle trasmissioni stesse. Comma 10: Le trasmissioni con accesso condizionato sono disciplinate dal regolamento dell`Autorità che definisce: a) gli avvenimenti politici scientifici, culturali e sportivi di particolare rilevanza o di interesse generale i cui diritti non possono essere acquisiti in esclusiva; b) gli avvenimenti di particolare rilevanza e interesse generale che devono essere diffusi in chiaro in diretta o entro le ventiquattro ore successive nel rispetto di quanto stabilito dal comma 9.
Ecco quindi il rimedio a situazioni come quella sorta a proposito della cessione dei diritti sulle partite di calcio, che ha suscitato tante polemiche: l'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni può stabilire che per determinati contenuti (evidentemente di interesse molto diffuso) non possono essere acquisiti diritti in esclusiva e quindi il loro accesso non può essere "condizionato". Per di più la stessa Autorità può imporre la diffusione in chiaro, cioè l'accesso incondizionato, per avenimenti di particolare rilevanza e di interesse generale. Ineccepibile, almeno a prima vista.
Purtroppo lo spazio è quello che è, dobbiamo trascurare molti punti interessanti e passare al ddl 1021, per vedere come viene regolamenta l'emittenza televisiva nazionale. Se ne occupa l'art. 2, che si intitola "divieto di posizioni dominanti". È abbastanza strano che non ci sia una indicazione "in positivo", come, per esempio "Norme per l'emittenza televisiva a diffusione nazionale"; di fatto ci troviamo di fronte a un complesso di disposizioni di estrema importanza, sottratte al loro contesto e infilate a forza in un provvedimento di natura diversa, come l'istituzione dell'Autorità.
Vediamo la sostanza, che è praticamente tutta nel comma 1: Nei settori delle comunicazioni sonore e televisive, anche nelle forme evolutive, realizzate con qualsiasi mezzo tecnico, della multimedialità, dell'editoria anche elettronica e delle connesse fonti di finanziamento, è vietato qualsiasi atto o comportamento avente per oggetto o per effetto la costituzione dominante da parte di uno o più operatori del settore che, impedendo l'espansione della libertà di pensiero e della libera formazione delle opinioni, la diversificazione dell'offerta e il libero accesso ai servizi, ovvero lo sviluppo di un sistema nazionale delle comunicazioni adeguatamente efficiente e competitivo, possa eliminare o ridurre in modo sostanziale il pluralismo e la concorrenza nel mercato di riferimento, definito anche in ambiti territoriali.
Come si realizzano queste prescrizioni? Con una serie di azioni di controllo e intervento da parte dell'Autorità e con una serie di limiti precisi. Il comma 6 stabilisce che ad uno stesso soggetto o a soggetti controllati da o collegati a soggetti i quali a loro volta concessione in base ai criteri individuati nella vigente normativa, non possono essere rilasciate concessioni che consentano di irradiare più del 20 per cento dei programmi televisivi o radiofonici, in ambito nazionale, trasmessi su frequenze terrestri, sulla base del piano delle frequenze. Nel piano nazionale di assegnazione delle frequenze l'Autorità fissa il numero dei programmi irradiabili in ambito nazionale e locale, tenendo conto dell'evoluzione tecnologica e delle frequenze pianificate secondo i seguenti criteri [...]. Ancora, il comma 8 prescrive che Nell'esercizio dei propri poteri l'Autorità applica i seguenti criteri: A) i soggetti destinatari di concessioni televisive in ambito nazionale anche per il servizio pubblico, di autorizzazioni per trasmissioni codificate in ambito nazionale, ovvero di entrambi i provvedimenti possono raccogliere proventi per una quota non superiore al 30 per cento delle risorse del settore televisivo in ambito nazionale riferito alle trasmissioni via etere terrestre e codificate. I proventi di cui al precedente periodo sono quelli derivanti da finanziamento del servizio pubblico al netto dei diritto dell'Erario, nonchè da pubblicità, da spettanze per televendite e da sponsorizzazioni, proventi da convenzioni con soggetti pubblici, ricavi da offerta televisiva a pagamento, al lordo delle spettanze delle agenzie di intermediazione. Il calcolo, per ciascun soggetto, dei ricavi derivanti da offerta televisiva a pagamento è considerato nella misura del 50 per cento per un periodo di tre anni a condizione che tale offerta sia effettuata esclusivamente su cavo o da satellite; la quota di cui al primo periodo della presente lettera non può essere superiore al 25 per cento qualora il fatturato lordo complessivo dei soggetti autorizzati per trasmissioni televisive a 20 per cento del fatturato globale del settore televisivo nazionale [...]Vi risparmio il seguito, fatto di un intricatissimo e a volte incomprensibile gioco di percentuali. La singolarità di questo testo è nel fatto che non prescrive obblighi o limiti ai soggetti interessati, ma raggiunge lo stesso risultato in maniera indiretta, elencando i criteri ai quali deve attenersi l'Autorità nell'esercizio dei suoi compiti anti-trust. Raramente la ben nota perversione dell'ingegneria legislativa italica ha raggiunto questi abissi.

La "convergenza" è lontana

Bene, dirà qualcuno a questo punto, fino ad ora abbiamo parlato di televisione. Ma i nuovi media, Internet e tutto il resto? Tranquilli: abbiamo esaminato, per ovvii motivi di spazio, solo una piccola parte dei due disegni di legge. Tutto il resto è... televisione! Anche via satellite, naturalmente, e c'è anche un po' di radio. Tutto, o quasi tutto "il resto" è sconosciuto o dimenticato dal legislatore.
Un esempio: l'articolo 10, comma 2, del ddl S1138 dice: Ai telegiornali e ai giornali radio si applicano le norme sulla registrazione dei giornali e periodici contenute negli articoli 5 e 6 della legge 8 febbraio 1948, n. 47. I direttori dei telegiornali e dei giornali radio sono, a questo fine, considerati direttori responsabili. Sembra una precisazione inutile, perché le norme sulla stampa si applicano da anni anche ai tele e radiogiornali. Ma è un'applicazione "di fatto", introdotta dalla giurisprudenza, perché la legge sulla stampa, che risale al 1948, considera solo tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione (art.1) e non è mai stata modificata. Ma il problema non è estendere le norme sulla stampa alla radio e alla TV, quanto ai nuovi media, e il disegno di legge non se ne preoccupa. Ora è vero che i Tribunali accettano l'iscrizione delle testate telematiche, con l'indicazione dei direttori responsabili, ma questa iscrizione è efficace solo ai fini civilistici e amministrativi. Le norme penali non possono essere applicate per analogia, e questo potrebbe comportare, per esempio, l'impunibilità o la non incriminabilità del direttore di un notiziario telematico per "omesso controllo" dei contenuti della pubblicazione. In conseguenza del comma 2, i commi 3 e 4 applicano ai tele e radiogiornali l'obbligo di pubblicare le rettifiche di chiunque si ritenga leso nel proprio interesse morale o materiale da produzioni contenenti affermazioni contrarie a verità. Ma evidentemente il legislatore non intende estendere quest'obbligo ai giornali pubblicati su Internet...
Nei due disegni di legge le nuove tecnologie fanno capolino qua e là, per esempio l'art. 2 comma 13 del 1021 dice che al fine di favorire la progressiva affermazione delle nuove tecnologie trasmissive, ai destinatari di concessioni radiotelevisive in chiaro su frequenze terrestri è consentita, previa autorizzazione dell'Autorità, la trasmissione simultanea su altri mezzi trasmissivi. Il che è decisamente troppo poco.
La lettura di testi come questi due disegne di legge fa nascere il sospetto che i nostri governanti non abbiano la minima idea di quello che succede nel mondo, che non abbiano contatti con i loro omologhi di altri paesi, che non capiscano quali sono i settori dell'economia che saranno vitali nel prossimo futuro. Molti fatti confermerebbero questa supposizione. Per esempio, si discute tanto di disoccupazione, ma non si prende in considerazione la possibilità di investire nelle tecnologie dell'informazione, soprattutto nei contenuti, creando un'occupazione "nuova", strutturale e duratura.
Un altro esempio viene dalla crisi della maggiore industria nazionale del settore, l'Olivetti, segnata dalle clamorose dimissioni di Carlo De Benedetti: tutti gli esperti, primo fra tutti il nuovo amministratore delegato, sanno che una parte non trascurabile delle difficoltà della casa di Ivrea dipende dal settore dei PC, che rendono pochissimo anche alle aziende più efficienti e che è impossibile produrre in Italia a prezzi concorrenziali con le industrie orientali. Ma i sindacati fanno barriera: la fabbrica di Scarmagno non si tocca, bisogna continuare a produrre PC. Si sono accorti questi signori che il personal computer sta per essere sostituito, come prodotto di massa, dai dispositivi per la TV digitale, via satellite prima e via cavo poi, e che in Europa tra pochi mesi esploderà la domanda di decodificatori TV? Sono prodotti ai quali una fabbrica di PC può essere convertita in tempi relativamente brevi, la manodopera qualificata è la stessa. Si cita spesso l'esempio degli Stati Uniti, dove negli ultimi tempi la disoccupazione è sensibilmente diminuita. Ma non si dice che una parte non trascurabile dei nuovi posti di lavoro è nata nel settore delle tecnologie dell'informazione, spinte con estremo vigore dal duo Clinton-Gore con i grandi progetti delle "superautostrade" lanciati tre anni fa.

Coinvolgere la gente

La pervicacia dei nostri governanti nell'ignorare l'evoluzione dei media ha, tra le altre, una conseguenza disastrosa: l'ulteriore ritardo nella "alfabetizzazione telematica" della popolazione. In Italia, di fatto, la gente non sa che cosa sta succedendo nel mondo delle telecomunicazioni. Oggi moltissime famiglie si preparano ad acquistare antenne satellitari e decodificatori per la TV via satellite, ma non sanno se questi apparecchi serviranno per molti anni o dovranno essere sostituiti entro un tempo abbastanza breve; nessuno capisce bene perché nelle città si scavino in tutta fretta lunghe trincee per la posa dei cavi in fibra ottica e via discorrendo.
Soprattutto non si dice nulla delle nuove opportunità di lavoro, e non solo di lavoro, offerte da Internet, non si affronta il problema dell'accesso alla Rete come diritto del cittadino e, in ultima analisi, della telematica come servizio pubblico. Nell'ignoranza e nel disinteresse generale potrebbero essere compiuti "colpi di mano" che ritarderebbero ancora l'evoluzione telematica del nostro paese: la gente e i sindacati sono pronti a levare fiere proteste per gli aumenti delle tariffe telefoniche, ma nessuna voce si leva per denunciare la persistente discriminazione dell'accesso a Internet, a costi insopportabili per chi non abita in una città servita dal "POP" di un Internet provider. Lo farà Telecom a danno dei privati?

Le grandi decisioni, quelle che pongono serie ipoteche sullo sviluppo futuro di una nazione, vedono spesso il coinvolgimento di almeno una parte della popolazione. Solo per fare un esempio, è stato il caso del referendum sulla costruzione delle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica. Non c'è dubbio che dibattiti di questo tipo sono a volte influenzati da azioni demagogiche, populistiche, da fenomeni di persuasione che poco hanno a che vedere con il reale oggetto della discussione. Tuttavia hanno il merito di far conoscere l'esistenza dei problemi, di creare nella gente la consapevolezza che si sta giocando una partita importante e che vale la pena di partecipare. Questa è la politica americana, che per altri aspetti ha caratterizzato in qualche misura le recenti campagne elettorali in Italia. Per restare in Europa c'è l'esempio della politica francese sulle telecomunicazioni, che è sì determinata da una forte tutela dell'interesse dell'industria nazionale, ma che è capace di azioni a lungo termine che coinvolgono la popolazione e quindi creano il mercato. È stato il caso del videotex dieci anni fa, è il caso di Internet oggi.

Il progetto originario delle autostrade dell'informazione lanciato Clinton e Gore non conteneva nulla di originale sul piano della sostanza, perché era interamente fondato su sviluppi tecnologici ed economici già in atto. Ma aveva il grande merito di presentarsi come un manifesto, come un ordine di mobilitazione generale delle energie di una nazione in vista di grandi obiettivi: la crescita economica, la diffusione della conoscenza, la creazione di nuovi posti di lavoro, la maggiore efficienza della pubblica amministrazione e via discorrendo. Un proclama di questo genere ha come effetto la presa di coscienza, almeno da parte di alcune fasce sociali, dell'esistenza di certi problemi. Ne consegue una richiesta "dal basso" di nuove iniziative, di nuovi servizi, che a poco a poco diffondono una nuova cultura nell'insieme della popolazione. Cresce l'attenzione verso le proposte della politica, sorgono discussioni, proposte, contestazioni. In poche parole si mette in moto un "progetto-paese", che è formulato dai governanti, ma coinvolge tutta la collettività, e in particolare il mondo delle imprese.

La maggior parte problemi che si devono risolvere in Italia non è diversa da quelli degli USA: crescita economica, nuova occupazione, istruzione e così via; la differenza è nella gravità della situazione nostrana. Ma in Italia questi dibattiti restano confinati a ristretti gruppi di persone. Basta leggere i giornali per rendersi conto che l'attenzione della classe politica non è rivolta ai progetti a lungo termine, alle grandi prospettive aperte dalle tecnologie dell'informazione. Si discute della privatizzazione della Stet, dimenticando che il problema non è la proprietà di un certo numero di aziende di importanza strategica, ma l'avvio concreto della liberalizzazione. Una società di telecomunicazioni può competere sul mercato anche se è di proprietà pubblica, e può esercitare un sostanziale monopolio anche se è privata. La riforma del sistema televisivo è vista come redistribuzione delle risorse e degli spazi (di fatto tra i soliti noti), mentre non c'è un vero dibattito sul ruolo dell'informazione pubblica, sul diritto degli utenti ad essere informati, sul diritto di accesso e così via.
Il disegni di legge governativi che abbiamo rapidamente esaminato nei paragrafi precedenti tengono conto solo di alcuni di questi aspetti e li condensano in formule ermetiche, da addetti ai lavori. È necessario invece che la gente possa capire e possa partecipare al dibattito in corso, per ricevere poi i benefici dell'innovazione.

Il sistema bloccato

Diversi episodi, e in particolare quello sulla cessione dei diritti per le trasmissione delle partite di calcio, hanno suscitato un vespaio di polemiche sul ruolo della televisione pubblica. Alcuni hanno detto che anche il calcio è "cultura" e che il servizio pubblico deve "fare cultura". Altri hanno replicato che la "cultura" che devono fare radio e TV non è quella del calcio, ma quella del "sapere"... Si dice che un personaggio di infausta memoria fosse solito esclamare "quando sento la parola cultura metto mano alla pistola"! Se fosse stato presente a molti dibattiti che si sono svolti negli ultimi tempi in Italia, avrebbe fatto una carneficina.
A mio avviso la discussione è fondata su un equivoco. C'è la "cultura" nel senso che definirei antropologico, quella del patrimonio comune di interessi di un popolo o di un gruppo, della quale certamente il calcio fa parte. E c'è la "cultura" nel senso del sapere tradizionale, la letteratura, la musica, la storia, il cinema, il teatro e quant'altro ci possa venire in mente.
L'accesso alla prima (cioè alle cronache delle partite di calcio e altre informazioni di interesse molto diffuso) non può essere subordinato a forme di abbonamento più o meno costose, deve essere messo a disposizione di tutti. Correttamente la nuova legge sul sistema televisivo ne tiene conto. La "cultura" in senso tradizionale presenta un aspetto opposto: interessa fasce troppo ridotte della popolazione e quindi non conviene all'impresa di comunicazioni privata, che funziona sui profitti. È ovvio che vi debba provvedere il servizio pubblico. E anche qui la nuova legge detta regole giuste.
Ma c'è un altro problema, che le recenti disposizioni non risolvono. Quello della cosiddetta "par condicio", ovvero dell'imparzialità dell'informazione pubblica, soprattutto per quanto riguarda la politica. Più volte negli anni sono state proposte e attuate soluzioni che solo gli ingenui possono ritenere adeguate. Si è discusso su chi, all'interno del sistema politico, dovesse nominare i componenti del consiglio di amministrazione della Rai, su come questo dovesse (e debba ancora) scegliere i dirigenti, sugli spazi da assegnare alle diverse componenti del sistema parlamentare. In una parola: lottizzazione. Si è cioè fatto credere che, assegnando a questo o a quello determinati spazi dell'informazione pubblica, si potesse raggiungere una sorta di imparzialità. Come se questa possa derivare dalla somma di diverse "parzialità"!
La realtà è un altra. Il mondo politico conosce, più per istinto che per consapevolezza, che l'informazione (soprattutto quella televisiva) esercita un potere enorme sulle scelte collettive, anche quando questo potere non è immediatamente misurabile con gli strumenti statistici. Basta vedere come dallo schermo televisivo si diffondono mode, modelli di vita, abitudini di consumo, linguaggi. Fino a quando l'informazione pubblica sarà controllata dal potere politico, indipendentemente dalle forme spartitorie che di volta in volta verranno escogitate, sarà un'informazione non libera.
È necessario abolire gli "indirizzi" che dal Parlamento partono verso il consiglio di amministrazione dell'ente pubblico, sia sotto forma di interventi di una "commissione di vigilanza", sia con la nomina degli amministratori. Gli obiettivi del servizio pubblico e il modo di perseguirli vanno indicati, una volta per tutte, con una legge che deve raccogliere un consenso molto vasto. Dopo di che ci sarà un comitato di "garanti", eletti al di fuori del sistema dei partiti, che interverrà solo nei casi di sospette violazioni della legge. Il sistema inglese funziona più o meno in questo modo e non a caso la BBC è spesso citata come esempio di informazione corretta e imparziale.
A questa premessa dovrebbe seguire una serie di considerazioni sulla professionalità degli addetti all'informazione. Ma questo ci porterebbe fuori dal seminato.
Non c'è dubbio che i tempi non sono maturi per discorsi di questo genere. Sarebbe necessario che "il Palazzo" rinunciasse di sua spontanea volontà a quell'enorme fetta di potere che è rappresentata dal controllo dell'informazione. È realisticamente impensabile. Ma fino a quanto sarà il Parlamento a decidere "come" regolare il controllo dell'informazione, questo controllo resterà nelle mani della politica. Sarà di tante parti, ma non al di sopra o al di fuori delle parti.
Sfugge a molti osservatori un elemento molto semplice: manca una definizione di "che cosa è" il servizio pubblico. La nuova legge sul sistema televisivo dice "come" l'ente pubblico deve svolgere il suo compito (secondo criteri di completezza, imparzialità e via elencando), ma non dice "perché" deve esistere un servizio pubblico. Se avviassimo una riflessione su questo punto, ci accorgeremmo che la Rai deve svolgere un servizio che è in qualche assimilabile a quelli che svolgono istituti come l'INPS o le Ferrove: cioè un servizio indispensabile in una società moderna, per soddisfare alcune esigenze fondamentali dei cittadini. Questo significa che si potrebbe tranquillamente fare a meno di tutti i servizi "commerciali" erogati dall'ente pubblico in concorrenza con i privati e sgomberare del tutto il terreno dai problemi della competizione tra pubblico e privato. Concentrare le formidabili risorse tecniche e professionali dell'ente statale verso il vero "servizio pubblico" porterebbe alla costruzione di un formidabile strumento di crescita culturale e sociale.
Ma si dovrebbe partire da più lontano: dalla definizione del diritto dei cittadini a essere informati.

Il diritto all'informazione

Il fatto è che manca una visione globale dei problemi, manca, come dire? il colpo d'ala, il progetto coinvolgente che possa coagulare le energie del paese in una direzione precisa. È necessario rendersi conto che il cambiamento socio-economico determinato dalla diffusione inarrestabile delle tecnologie dell'informazione richiede una visione innovativa anche dell'azione politica, e quindi legislativa.
Forse nessuno ha osservato che nel modello socio-economico che si sta sviluppando è fondamentale un diritto mai sancito formalmente: il diritto all'informazione. In mancanza di una definizione giuridica di questo diritto, tutte le norme sul diritto di accesso, sul servizio universale, sull'informazione pubblica, sono destinate a restare sospese in aria. Se si stabilisse, con norme di legge, in che cosa consiste il diritto all'informazione, allora si potrebbe definire il servizio universale, che è il reciproco del diritto all'informazione. Cioè "il dovere di informare".

La Costituzione italiana, come molte altre Carte fondamentali, sancisce con l'articolo 21 il diritto di esprimere le proprie opinioni e la libertà di stampa. Ma non prevede il diritto di conoscere le opinioni degli altri e nemmeno i fatti che possono essere considerati di interesse pubblico. Insomma, contrariamentea molti altri diritti, quello relativo alla libertà di espressione non ha il corrispettivo di un dovere, il dovere di informare. L'articolo 38, per esempio, dopo aver stabilito che Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha il diritto al mantenimento e all'assistenza sociale [...] pone un obbligo a carico dello Stato: Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi o istituti predisposti o integrati dallo Stato.

Vediamo un altro punto molto significativo: l'articolo 54 della Costituzione dice che Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi. Ma nessuna norma costituzionale afferma che i cittadini hanno il diritto di conoscere le leggi! È vero che i testi di legge non sono soggetti a copyright, come afferma l'art. 5 della legge n. 633 del 22 aprile 1941 sul diritto d'autore, ma la conseguenza di questa "libertà di copia" è singolare: sui testi normativi lucrano vistosamente gli editori che pubblicano raccolte legislative variamente articolate e commentate.
Se fosse stabilito, con norme di carattere generale, il diritto dei cittadini di essere informati, sarebbe possibile anche dettare norme per il diritto di accesso all'informazione, da distinguere in diritto di accesso alle reti e diritto di accesso ai contenuti. E quindi definire il servizio universale come l'obbligo dello Stato (che può rispettarlo anche attraverso i privati) di soddisfare questi diritti. Si potrebbe elencare un insieme minimo di informazioni che non può essere sottoposto a canoni o costi di accesso. In questa prospettiva si potrebbe risolvere la questione, sempre elusa nei suoi termini sostanziali e formali, dei compiti del servizio pubblico radiotelevisivo. Con conseguenze destabilizzanti anche per il nuovo assetto del sistema, perché il canone dovuto alla Rai potrebbe rivelarsi illegittimo. Infatti, se l'ente avesse il compito esplicito di fornire a tutti i cittadini le informazioni a cui essi hanno diritto, i suoi costi dovrebbero essere posti a carico della collettività, cioè dovrebbero essere una piccola tassa pagata da tutti.

Rivoluzionario? Ma siamo o non siamo in mezzo a quella che tutti chiamano "rivoluzione multimediale"? Forse no, non ci siamo. Altrimenti non continueremmo a perdere tempo con leggi insufficienti, disarticolate e addirittura fatte a pezzi fin dal concepimento, come quelle in discussione oggi. Leggi che sembrano, ancora una volta, scritte per accontentare qualcuno e non scontentare nessuno, invece che per l'interesse comune della collettività.

 


"...una tariffa ridotta per gli usi telematici...": firmato Cyber-Prodi

Le telecomunicazioni sono davvero la grande sfida del terzo millennio. Una sfida politica, prima ancora che finanziaria o tecnologica, che solo nuove menti davvero europee potranno affrontare e vincere. Si apre così un'intervista a Romano Prodi pubblicata su la Repubblica il 26 maggio 1994, prima che si incominciasse a parlare di lui come possibile leader di una formazione politica. La data è quella della presentazione del rapporto del gruppo di "eminenti personalità" guidate da Martin Bangemann, del quale Prodi faceva parte.
L'argomento compariva poi nelle "Tesi" n. 51 e 52 del programma iniziale dell'Ulivo: Società dell'informazione significa innanzitutto nuove possibilità per gli individui di formarsi, divertirsi, comunicare tra loro in un ambito sempre più aperto al mondo... Il settore delle telecomunicazioni già oggi si sta rapidamente integrando con quello dell'informatica e rappresenta uno dei principali pilastri del progetto di forte ripresa del paese...

Poi sono arrivati "Cyber-Prodi", l'Ulivo sul World Wide Web e, poco prima delle elezioni, un "Patto per la telematica" e un documento intitolato "Società delle comunicazioni e mercato globale": Le comunicazioni propongono una nuova questione sociale: è necessario evitare una ulteriore divisione tra chi è provvisto di conoscenze adeguate e chi è, e sarà, sempre più emarginato dai nuovi saperi... Piano di alfabetizzazione collegato con lo sviluppo delle reti civiche già realizzate da molti comuni italiani, e la diffusione nelle scuole... Istituzione di una tariffa ridotta per gli usi telematici... Il paese deve investire nella creatività... È necessario essere ben coscienti e realistici sul ritardo nella diffusione di Internet...
"Navigando" su Internet si incontra qualcuno che fa promesse... da marinaio. Promesse che possono essere rilette alle URL:
http://www.krenet.it/ForumProdi/tesipro/main.htm
http://www/ulivo.it/notizie/ulivo-news/0060.html
http://www/ulivo.it/doc/rete.html

 


Sesso & TV

Il disegno di legge S1138 regolamenta anche la trasmissione dei contenuti che gli americani definiscono "indecenti", cioè tutto ciò che va dalle produzioni cinematografiche vietate ai minori alla pornografia, senza dimenticare le rappresentazioni di violenza (ma su questo punto sarebbero necessarie norme più complete). Comma 7: È vietata la diffusione in chiaro di produzioni idonee a nuocere allo sviluppo psichico o morale dei minori, che contengano scene di violenza gratuita o pornografiche, che inducano ad atteggiamenti di intolleranza basati su discriminazioni di razza, sesso, religione o nazionalità. Comma 8: I film vietati ai minori di anni quattordici possono essere diffusi in chiaro nella fascia oraria compresa fra le ore 22,30 e le ore 7. Comma 10: È consentita la diffusione in chiaro nella fascia oraria compresa fra le ore 22,30 e le ore 7 di film vietati ai minori di anni diciotto che abbiano ottenuto il riconoscimento di opera di "interesse culturale e nazionale" dall'apposita commissione ministeriale [...].
Non si parla di "censor chip" da inserire nei televisori, come negli USA, ma nel complesso le norme appaiono equilibrate. Non c'è un'effettiva censura: qualsiasi contenuto può essere trasmesso in codice, e questo consente ai genitori di inibire ai figli la visione di certi programmi. Libertà di sesso e protezione dei minori sono assicurate. Se si adottassero (non solo in Italia, naturalmente) regole di questo tipo anche per Internet, certe polemiche potrebbero finire.


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