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Firma digitale

Buste paga via posta elettronica: sì, ma come?

di Paolo Ricchiuto* - 10.04.08

Per un'interpretazione diversa vedi Buste paga via posta elettronica? C'è la PEC... di Manlio Cammarata.

Il tema della dematerializzazione dei documenti e dei processi operativi è senza alcun dubbio la chiave di volta per una organizzazione imprenditoriale moderna: riuscire a gestire mediante gli strumenti elettronici e telematici le miriadi di adempimenti che, con l’approssimarsi di ogni fine del mese, incombono sulle strutture amministrative di qualsiasi azienda, significa risparmiare tempo, soldi, energie.
Tanto, tantissimo si sta facendo su mille fronti.

E allora ci si è chiesti: piuttosto che stampare e consegnare le buste paga ai dipendenti, perché non inviargliele per posta elettronica ? Dal punto di vista pratico, nessun dubbio che si tratti di quella che qualcuno potrebbe chiamare una win-win policy: da un lato, ci guadagna l’azienda, che snellisce in modo decisivo l’adempimento (soprattutto quando i lavoratori sono decine, centinaia o migliaia); dall’altro, ricevere per via telematica la busta paga è un vantaggio anche per il dipendente, che potrà formarsi agevolmente un archivio elettronico dei suoi cedolini (oltre che, per i più evoluti, utilizzare procedure di import dei dati e di ri-elaborazione degli stessi, magari per verificare che non ci siano stati errori).

Nell’ambito del rapporto di pubblico impiego, questa procedura ha trovato da tempo la sua copertura formale con la legge finanziaria 2005 - art. 1 comma 197 (che ha affermato il principio) e con il successivo decreto del ministero dell’economia 12.01.06 (che ha dettato le regole operative per la gestione via e-mail dell’adempimento).

In assenza di una disciplina specifica, c’è qualche ostacolo normativo affinché questa prassi possa considerarsi legittima anche per il rapporto di lavoro privato?
La domanda è stata posta da un’associazione di categoria nelle forme dell’interpello al Ministero del lavoro, la cui direzione generale per l’attività ispettiva ha risposto l' 11 febbraio 2008.
Il documento lascia molto, molto perplessi, e ciò sia per l’iter logico giuridico seguito da chi lo ha congegnato, sia per le conclusioni alle quali giunge.
Cerco di spiegare perché.

La normativa cui fare riferimento (applicabile ai soli rapporti privatistici) è la legge 05.01.1953 n. 4, che al suo art. 1 prevede :
È fatto obbligo ai datori di lavoro di consegnare, all'atto della corresponsione della retribuzione, ai lavoratori dipendenti, con esclusione dei dirigenti, un prospetto di paga in cui devono essere indicati il nome, cognome e qualifica professionale del lavoratore, il periodo cui la retribuzione si riferisce, gli assegni familiari e tutti gli altri elementi che, comunque, compongono detta retribuzione, nonché, distintamente, le singole trattenute.
Tale prospetto paga deve portare la firma, sigla o timbro del datore di lavoro o di chi ne fa le veci
.
Chiarisce poi l’art.3:
Il prospetto di paga deve essere consegnato al lavoratore nel momento stesso in cui gli viene consegnata la retribuzione.

Se della norma si dà una lettura fedele ed equilibrata, ne derivano due considerazioni importanti.
La prima (nemmeno fatta oggetto di alcuna riflessione nell’interpello 1/08) è che il prospetto paga non è un documento che deve essere necessariamente sottoscritto dal datore di lavoro, essendo possibile sostituire alla firma la “sigla o il timbro” del medesimo, o addirittura di “chi ne fa le veci”. Tradotto a livello di codice dell’amministrazione digitale (così come modificato dal DLGV 159/06), ciò significa che per la validità ed efficacia del prospetto paga chiamiamolo elettronico, non è richiesto l’utilizzo della firma digitale (o firma elettronica qualificata, come mezzo equipollente – o… più che equipollente, secondo alcuni - alla sottoscrizione autografa).

Dal punto di vista dei requisiti strutturali della busta paga, dunque, per quanto ciò possa risultare abbastanza sconcertante, non sembra vi siano problemi di sorta al suo palesarsi in un semplicissimo file anche non sottoscritto (con tutti i problemi che derivano dalla mancanza di una previsione quantomeno relativa al formato da utilizzare ai fini della immodificabilità del file).
Il massimo della semplicità, dunque. Anche troppa. Ma c’è di più.

La norma, se letta con la dovuta attenzione, prevede l’ “obbligo di consegna” del cedolino al momento della corresponsione della retribuzione. Nulla di più. Il che significa che il datore di lavoro che sia chiamato a dimostrare di aver consegnato la busta paga al dipendente, non è astretto da alcun vincolo circa lo strumento probatorio attraverso il quale fornire tale prova. E dunque, ad esempio, nel mondo fisico, potrà assolvere all’onere probatorio utilizzando lo strumento più sicuro, e quindi producendo una busta paga sottoscritta per ricevuta dal dipendente; ma nulla vieta (certo non lo vieta la legge 4/53) che l’onere probatorio sia assolto mediante una prova testimoniale.

Allo stesso identico modo, spostando l’attenzione sull’eventuale consegna della busta paga informatica (o informatizzata) per via telematica, in assenza di altri punti di riferimento, la legge 4/53 non pone vincolo alcuno in ordine alla prova dell’avvenuta consegna. Di tal che i più avveduti possono affidarsi allo strumento più evoluto – la posta elettronica certificata – ma ciò non esclude che la prova possa essere fornita in altre forme (si pensi, ad esempio, mutuando una soluzione delineata dal DLGV 70/03 in materia di commercio elettronico – art. 13 comma 2 - alla previsione organizzativa che vincoli il lavoratore che riceve la e-mail contenente la busta paga sul proprio semplicissimo account personale, ad inviare al datore di lavoro una e-mail di risposta che attesti l’avvenuta ricezione – “accusi ricevuta”, nella dizione del DLGV 70/03 - della comunicazione contenente il file con la busta paga).

Ora, rispetto a tale scenario abbastanza chiaro, il Ministero del lavoro, nell’interpello in commento, arriva a conclusioni opposte, a mio modestissimo avviso errate, per un motivo abbastanza semplice: cioè che parte da una premessa apparentemente errata . Si legge, infatti, nell’interpello: “in linea di principio non si ravvisano motivi ostativi all’invio del prospetto di paga con posta elettronica, se si considera la prassi generalizzata dell’accredito diretto dello stipendio in conto corrente bancario e la notevole
diffusione delle conoscenze informatiche, purché vi sia la prova legale dell’effettiva consegna del prospetto di paga al lavoratore alla scadenza prevista per il pagamento della retribuzione.”

Prova legale di effettiva consegna. Cosa intende il Ministero per “prova legale”? Presumibilmente (lo si capisce dalla soluzione ipotizzata) si intende dire che il datore di lavoro nel soddisfare all’onere probatorio previsto dalla norma, sia costretto a fornire la dimostrazione dell’avvenuta consegna soltanto utilizzando determinati strumenti. Principio, come abbiamo visto, in nessun modo affermato dalla normativa di riferimento, richiamata dal Ministero con una latitudine che in realtà non gli appartiene.

E’, lo ripeto, da questa erronea deduzione (da questo abbaglio, mi permetto di dire) che deriva la formalistica soluzione adottata dal Ministero, a tenore della quale l’unica strada che il datore di lavoro può percorrere per provare la consegna del prospetto paga via posta elettronica, sia l’utilizzazione della posta elettronica certificata: “Alla luce di quanto sopra, l’azienda che utilizza il servizio di posta elettronica certificata seguendo le procedure previste dalle norme richiamate, nel rispetto delle regole in materia di protezione dei dati personali, potrà validamente assolvere agli obblighi di consegna del prospetto di paga anche per via telematica”.

Ecco dunque che da una mancanza di prospettiva, si arriva ad una soluzione che limita il campo d’azione dell’invio telematico della busta paga ad ambiti limitatissimi.
E’ il caso infatti di ricordare che il sistema della PEC, per poter operare quale strumento probatorio dell'avvenuta ricezione della comunicazione, può funzionare soltanto laddove mittente e destinatario siano entrambi dotati di account certificati.

Quando il Ministero, nell’interpello 1/08, richiede la “prova legale della consegna”, dunque, deducendo che la medesima possa essere integrata dall’uso della PEC, automaticamente afferma due principi molto chiari, e cioè: a) che non può considerarsi sufficiente la semplice prova della spedizione del messaggio di posta; b) conseguentemente, che non solo il datore di lavoro, ma anche il lavoratore devono essere dotati di account di posta certificati, atteso che, nel diverso caso in cui il messaggio di posta sia inviato da un account certificato (quello del datore di lavoro) ad uno che non lo è (quello del lavoratore) il mittente potrà contare, sì, sulla prova dell’avvenuta spedizione (la cd. ricevuta di accettazione – RdA - rilasciata al mittente dal gestore del servizio e del punto di accesso – PdA). Ma, esattamente come accade per una lettera raccomandata semplice (senza ricevuta di ritorno), il mittente non sarà in grado di fornire la prova dell’avvenuta ricezione, con effetti dunque non spendibili ai fini del rispetto degli oneri probatori fissati dalla L. 4/53 relativamente alla avvenuta consegna del cedolino paga.

Così ricostruito il quadro che emerge dall’interpello, appare evidente la portata minimale della platea di soggetti che realmente sono interessati dal medesimo: è un dato di comune esperienza, infatti, la scarsa diffusione sul mercato della PEC per le aziende. E, al di là di ciò, ad oggi almeno per chi scrive, sono sconosciute esperienze in cui il datore di lavoro si sia premurato (e si sia sobbarcato l’esborso) di dotare tutti i propri dipendenti di un account personale certificato, strumento che il lavoratore medio non ha di norma alcun interesse ad utilizzare di propria sponte e con costi a proprio carico.

Risultato: secondo l’interpretazione data dal Ministero, quasi nessuno potrà legittimamente inviare le buste paga per posta elettronica. Sul punto, quindi, attesa la portata del tema, è (diciamolo eufemisticamente) auspicabile che gli organi competenti prendano nuovamente posizione, cercando da un lato, di dare applicazione al vero contenuto delle norme; dall’altro, di individuare soluzioni effettive, e non tali da essere incompatibili in partenza con la realtà operativa.

Nota: Paolo Ricchiuto sarà relatore nel seminario InterLex Organizzazione, privacy, sicurezza: applicare le nuove norme che si terrà a Roma il 28 maggio prossimo.
 

* Avvocato in Roma

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