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Firma digitale

La memoria digitale dell'Italia non si conserva in PDF

di Gianni Penzo Doria* - 03.03.06

 

Con un breve comunicato stampa del 16 febbraio 2006, il CNIPA ha annunciato la sottoscrizione di un protocollo di intesa con Adobe Systems incorporated per il riconoscimento di Adobe PDF, acronimo di Portable Document Format, quale formato valido per la firma digitale. Il protocollo d'intesa si inserisce giuridicamente in quanto previsto dall'art. 12, comma 9, della deliberazione CNIPA 17 febbraio 2005, n. 4 e sancisce l'affiancamento del formato PDF al P7M, cioè all'unico formato finora riconosciuto dal legislatore italiano.

Innanzitutto va rilevata l'incongruenza dell'equiparazione di un formato proprietario (il PDF) con un formato aperto (il P7M). A nulla rileva che il PDF sia un formato distribuito gratuitamente, poiché si tratta, a ben vedere, di una palese miopia. Adobe, infatti, distribuisce gratuitamente il lettore (Acrobat Reader) e non l'editor (Acrobat Maker). Il fatto che le specifiche siano rese pubbliche in un documento di 978 pagine (PDF Reference, ver. 1.4, 2001 - ISBN 0-201-75839-3, scaricabile da qui) e che Adobe non detenga il monopolio internazionale dei PDF tools, non deve far dimenticare che, a causa della complessità del formato, ogni approvazione per la modifica dello standard deve comunque passare da Adobe.

Non solo. Questa appena descritta è la politica commerciale "attuale" di Adobe e non è detto che in futuro non cambi, con grave pregiudizio per gli utenti finali, sia pubblici che privati. Quale nazione affiderebbe ad una azienda business oriented, per quanto potente e stabile, la conservazione della propria memoria?
Partiamo allora da una considerazione semplice. Negli ultimi anni (1997-2006) il legislatore italiano ha utilizzato la firma digitale come panacea per molti mali dell'amministrazione pubblica, fallendo clamorosamente gran parte degli obiettivi prefissati, a causa della farraginosità delle norme tecnologiche. Le scelte effettuate dall'AIPA prima e dal CNIPA poi sono infatti state orientate a favorire l'introduzione della firma digitale come strumento per l'eliminazione della carta, coniando slogan sull'archiviazione ottica fino alla assurdità sulla cosiddetta "dematerializzazione". Nel nostro caso, si tratta di un concetto e di una parola del tutto fuorvianti, come se l'informatica non fosse "materiale" e come se anche il documento informatico non fosse "res signata", affissa comunque ad un supporto materiale.

Se siamo dunque in attesa della quinta edizione della normativa sulla archiviazione ottica un motivo ci dovrà pur essere (i precedenti: deliberazione AIPA 15/1994; deliberazione AIPA 24/1998; deliberazione AIPA 42/2001 e deliberazione CNIPA 11/2004).
E, infatti, c'è: la firma digitale non è in grado, da un punto di vista tecnologico, di conservare i documenti informatici nel tempo. E nessun paese al mondo che abbia maturato un'esperienza consolidata sull'utilizzo della firma digitale (ad es., Stati Uniti, Canada, etc.), la utilizza per la long term preservation, cioè per la conservazione a lungo termine.

La firma digitale, infatti, oltre a non essere una firma - ma un marchio, un contrassegno, un sigillo informatico - non migra da una generazione di tecnologia ad un'altra. In altre parole essa è il primo strumento a soffrire dell'altra faccia del progresso: l'obsolescenza tecnologica. Sappiamo infatti che il cambiamento anche di un solo bit nella sequenza del file firmato produce come conseguenza la invalidità della firma. Pertanto, un file prodotto con MS Word 5.5 con il sistema operativo DOS 3.3 non conserva intatto il flusso originario di bit in ambiente Windows XP, ma viene modificato con le conseguenze appena descritte.

Dal punto di vista della conservazione, dunque, la firma digitale va tolta e, in ambiente digitale, vanno conservati il file e i suoi componenti, assieme ai rispettivi metadati, con lo scopo di conservare non l'originale, ma le prove per dimostrare l'autenticità di una sua copia. Questo è un passaggio critico e irrinunciabile, purtroppo glissato dal legislatore anche nell'ultima edizione delle regole sulla archiviazione sostitutiva. Eppure si tratta di conclusioni ben note al mondo scientifico, alle quali sono giunti diversi progetti internazionali. Anzi, il governo statunitense, tramite il Department of Defense, la National Archives and Records Administration (NARA) e la Library of Congress , utilizzatori da tempo della firma digitale, ha deciso clamorosamente di non utilizzarla per finalità di conservazione, rivedendo completamente le proprie strategie (http://www.digitalpreservation.gov).

Basta leggere la relazione di Susan J. Sullivan del NARA al seminario viennese organizzato nel 2004 da Erpanet sui formati dei file idonei alla conservazione - File formats for preservation; oppure i brillanti risultati ottenuti nell'ambito di progetti internazionali come Interpares 1 e 2, oppure le norme ISO 15489, Information and documentation - Records management, oppure ancora lo studio dell'International Council on Archives del 2005 su Electronic records: a workbook for archivist e molti altri ancora per convincersi da un lato della delicatezza estrema della conservazione in ambiente digitale e dall'altro della totale inadeguatezza della normativa italiana in materia.

E il nostro PDF? Partiamo da un'altra considerazione semplice. Se lo strumento che consentirà la verifica della firma sarà il PDF, è altamente probabile che, per ragioni di efficienza, molti documenti verranno prodotti o trasformati in questo formato e che, successivamente, in questo modo verranno poi destinati alla conservazione. Infatti, da tempo non poche amministrazioni pubbliche utilizzano il PDF come il formato ritenuto idoneo alla conservazione. Ma è davvero così?
Certamente no e soprattutto - fattore determinante per il nostro discorso - la pensa così anche Adobe.

È stato infatti dimostrato che il PDF soffre dei tradizionali problemi relativi ai documenti contenenti macro aggiornabili all'insaputa del firmatario in funzione delle variabili d'ambiente, oppure javascript. Inoltre, esso può contenere elementi intrinsecamente deleteri per la conservazione, quali l'integrazione di file eseguibili, elementi compressi e crittografati, sezioni audio e video e altro ancora. Insomma, il formato PDF è tutt'altro che statico e immodificabile.
Se ne accorsero per primi gli archivisti statunitensi dell'Administrative Office of the U.S. Courts (AOUSC), quando si trattò di applicare il PDF alla conservazione dei loro documenti informatici. Fu quasi una sollevazione da parte degli addetti ai lavori, a causa della palese inadeguatezza del formato. Iniziò allora una collaborazione senza precedenti tra agenzie governative, biblioteche, archivi, industria privata e Adobe per formare un Comitato con lo scopo di giungere alla definizione di uno standard ISO per la conservazione a lungo termine dei file PDF.

Il Comitato, presieduto da Stephen Levenson dell'AOUSC e con la copertura poderosa di due standard organizations come l'AIIM (Association for Information and Image Management) e la NPES (The Association for Suppliers of Printing, Publishing and Converting Technologies), ha iniziato i lavori nel 2002, fino a giungere nel settembre 2005 alla approvazione delle specifiche di un subformato del PDF, denominato PDF/a, dove "a" sta appunto per "archive". Tali specifiche sono state approvate dall'International standard organization come ISO/CD 19005-1, Document management - Electronic document file format for a long-term preservation - Part 1: Use of PDF (PDF/a). Sul tema, molti materiali e preziosi link sono disponibili nel sito dedicato dalla Library of Congress a questo tema.

Ciò significa sostanzialmente due cose: da un lato il PDF usato correntemente da molte amministrazioni pubbliche non è idoneo ad essere conservato nel tempo, dall'altro gli enti pubblici e privati che hanno fatto questa scelta riscontreranno in un futuro non molto lontano notevoli criticità in termini di efficienza ed economicità, perché ai fini conservativi sarà indispensabile una migrazione quantomeno a PDF/a o ad altri formati sicuri (e aperti) sul fronte della conservazione; ad esempio a quanto licenziato dal W3C ancora nel 2001 e ormai considerato da archivisti, bibliotecari e informatici come garanzia per il mantenimento dell'autenticità dei documenti informatici nel tempo, quale il linguaggio XML, che conserva i file indipendentemente dal modo (o dai modi) di rappresentarli.

Il problema di dimostrare l'autenticità di un documento informatico pertanto sarà il "vero problema" per chi vorrà conservare la propria memoria digitale. Infatti, a chi giova conservare un documento del quale non è possibile dimostrarne l'autenticità, l'integrità e la genuinità? E questo è molto più complesso per un file piuttosto che per un documento cartaceo, che dal canto suo ricomprende in un solo "oggetto" tre cose che in ambiente digitale sono invece indipendenti: contenuto, firma e supporto.

Il gruppo interministeriale di lavoro sulla dematerializzazione coordinato dal CNIPA, che finalmente ha coinvolto (grazie ad una doverosa e apprezzabile presa di posizione della Direzione generale per gli archivi, che nega tuttora l'autorizzazione allo scarto dei documenti delle amministrazioni pubbliche - prevista dall'art. 21 del D.Lgs. 42/2004 - sottoposti ad archiviazione ottica sostitutiva almeno fino alla definizione di modalità garanti del diritto, vista che siamo pur sempre un paese di civil law) anche rappresentanti dei beni culturali, sta lavorando alle procedure per la trasformazione di originali cartacei in copie digitali, non alle regole per la conservazione digitale di file nati in ambiente digitale. Comunque sia, sarà un passo in avanti, ma un passo tutto sommato poco significativo e sicuramente molto costoso in termini di investimenti tecnologici.

In conclusione e al di là delle posizioni su formati aperti e formati proprietari, perché è preferibile investire nella conservazione in XML anziché in PDF per le amministrazioni pubbliche?
Almeno il 90% dei documenti prodotti ogni giorno sono documenti testuali, che quindi non hanno la necessità di sfruttare le potenzialità del formato PDF per integrare immagini, suoni, hyperlink, etc. In altre parole, le caratteristiche che rendono il PDF un formato ampiamente apprezzato per la gestione documentale, sono le stesse che lo rendono inaffidabile per la conservazione.

Il problema è che ancor oggi sono pochissimi i documenti che nascono in ambiente digitale, perché molte organizzazioni continuano a utilizzare il computer come una macchina da scrivere evoluta: stampano il documento su carta, lo sottoscrivono in modo autografo, effettuano una scansione e poi lo veicolano. Tre passaggi su quattro sono del tutto inutili sotto il profilo dell'efficacia giuridico-probatoria (si tratta pur sempre di una copia; digitale, ma pur sempre copia) e altrettanto inutili rispetto a un documento che nasce digitale.

Infine, il "problema dei problemi" è che tuttora non sono ancora state effettuato scelte strategiche (e condivise) realmente applicabili per la conservazione della memoria digitale del paese Italia, continuando a sottovalutare una materia che all'apparenza sembra informatica, ma che per la sua intrinseca interdisciplinarietà - laddove si devono necessariamente integrare competenze relative a informatica, diritto, informatica giuridica, archivistica e, soprattutto, diplomatica - non è cosa che i soli informatici possono portare a soluzione.
 

 * Archivio centrale dell'Università di Padova

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