Pagina pubblicata tra il 1995 e il 2013
Le informazioni potrebbero non essere più valide
Documenti e testi normativi non sono aggiornati

Protezione dei dati personali

Il rovescio del diritto

di Corrado Giustozzi – 12.10.06

 

Se rinasco voglio fare l’avvocato: così forse, almeno spero, capirò la legge e il modo in cui la si applica. E magari, chissà, riuscirò perfino a comprendere le sue sfumature più esoteriche e ad apprezzare i suoi razionali più elusivi che oggi, come temo succeda alla maggioranza del popolo italiano, inesorabilmente mi sfuggono.

Certo, dopo tanti anni che frequento le anticamere del diritto qualcosa ho imparato: ma più vado avanti e più mi accorgo di non saperne abbastanza, perché rimango sempre più meravigliato di fronte alle cose che accadono. Naturalmente ho capito ben presto che la legge, così come le ricette di cucina, non è un algoritmo: ossia una sequenza formale di istruzioni non ambigue e prive di arbitrio che, applicate a situazioni identiche, conducono inevitabilmente ai medesimi risultati. La legge invece è molto più simile alla mayonnaise: richiede estro ed arte nel mescolare e trattare gli ingredienti, e non è detto che a parità di ingredienti e di trattamenti il risultato sarà sempre lo stesso. Ed infatti, proprio come la mayonnaise, la legge a volte impazzisce tra le mani dell’operatore, creando mostruosità difficili da mandare giù. Un’altra cosa che ho appreso è che non sempre il diritto va d’accordo col buon senso, o meglio che il buon senso non è necessariamente il criterio prevalente da utilizzare quando si tratta di interpretare ed applicare una norma.

Sarà forse che col passar degli anni la mia innata paranoia va man mano aggravandosi ma ho sempre più il sospetto che, almeno in quelle altissime sfere del diritto che riguardano i princìpi più assoluti e fondamentali, la straordinaria generalità delle definizioni e delle formulazioni della legge non sia, come ci hanno sempre fatto credere, una rigorosa necessità semantica conseguente all’esigenza concettuale di comprendere le fattispecie più ampie senza limitarle a casi specifici o contaminarle con fuorvianti particolari, bensì un astuto espediente per potersi sempre lasciare spazio di manovra in modo da poter giustificare, a posteriori, anche le più inverosimili e surreali interpretazioni.

La nostra legge sulla privacy, sin dalla sua prima incarnazione risalente al lontano 1996, si è sempre prestata a letture contraddittorie ed a facili strumentalizzazioni: di questa cosa il precedente Garante era ben conscio, tanto da aver più volte stigmatizzato la dilagante tendenza a tutti i livelli di giustificare ogni inazione o mancata prestazione di servizi adducendo improbabili “motivi di privacy”. Il nuovo testo unico, basato sui sette anni di esperienza del codice precedente e forte di oltre centottanta articoli, sembrava meno suscettibile del suo predecessore ad interpretazioni libere: tuttavia ci si è ben presto resi conto che ancora una volta, nelle more di alcune definizioni di estrema ed assoluta generalità, non si può che rimanere impigliati in una rete infinita di dubbi esistenziali ai quali solo il Garante, nella sua onnisciente bontà, può dare risposte.

Si domandano ad esempio gli ingenui: cos’è un dato personale? La risposta sembra ovvia, ma attenzione a non eccedere nel buon senso: quello che a prima vista potrebbe apparire un perimetro di competenza ragionevolmente delimitato, se segnato appunto col gessetto del buon senso, diventa purtroppo sterminatamente vasto se si applica alla lettera il codice nella sua universale generalità. Dato personale, nel nostro ordinamento, è infatti: “qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente od associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione.” Praticamente qualsiasi cosa, nulla esclusa ed eccettuata. Cosa vuol dire infatti “mediante riferimento a qualsiasi altra informazione”? Il numero di serie dell’hard disk del mio computer è un dato personale? Sembrerebbe di no: se però esso compare nella fattura con cui l’ho acquistato, la quale è riferibile a me, lo diventa. Oppure no? E la targa della mia macchina è un dato personale? E la taglia dei miei pantaloni? Il colore dei miei calzini? Potrebbero esserlo, dipende dal contesto…

Si domandano i meno ingenui: cos’è un dato sensibile? I più scaltri non cascano nella trappola di considerare sensibile l’importo del proprio conto in banca o del proprio stipendio, che effettivamente per la legge non lo sono benché il novantotto per cento delle persone li ritenga tali. Il codice a tal proposito sembra essere rigido e preciso, definendo i dati sensibili come: “i dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Uhm. Il numero di targa della mia auto potrebbe essere un dato sensibile? Effettivamente sì: una targa estera è senza dubbio idonea rivelare un’origine razziale o etnica del suo proprietario. Un’ordinazione al ristorante? Sì: è idonea a rivelare convinzioni religiose. Un abbonamento allo stadio? Certamente: la fede calcistica è senz’altro una convinzione; “di altro genere” rispetto a quelle politiche o religiose, ma ad essa equiparata dalla legge! Da questo punto di vista anche il fatto di credere a Babbo Natale o ai vampiri è una “convinzione” meritevole di tutela a norma del codice. Attenzione dunque se un amico vi dice, ad esempio, “sono convinto che i Pink Floyd siano stati il miglior complesso pop”: la sua convinzione è un dato sensibile, e come tale dovete trattarla in modo lecito e tutelarla con ogni sforzo possibile. Per il suo compleanno non regalategli dunque un disco del suo gruppo preferito: la vostra azione rivelerebbe infatti ai presenti le sue convinzioni, con grande dispiacere del Garante che a queste cose ci tiene molto.

Vogliamo poi parlare in particolare dello stato di salute? Questa volta ci ha pensato il Garante in persona a confonderci le idee, sancendo ufficialmente in un suo illuminato parere che l’informazione sul fatto che una persona è in buona salute non è un dato sensibile sanitario, mentre quella che una persona non è in buona salute lo è. La mente vacilla. E allora, quanto non in buona salute bisogna essere affinché il dato sia sensibile? Uno starnuto basta a rivelare lo stato di salute? Il fiatone? Le occhiaie? Se incontro per strada una persona che tossisce, sto trattando un suo dato sensibile sanitario? E prima che pensiate che esagero: ho vissuto personalmente il caso in cui il responsabile del call center di una grande azienda ha seriamente ed ufficialmente posto all’ufficio legale interno il quesito se le registrazioni delle telefonate del pubblico dovessero essere considerate dati sensibili atti a rivelare lo stato di salute, perché dal timbro di voce dell’interlocutore gli operatori potevano accorgersi se era raffreddato…

Peraltro non è ben delimitata neppure la nozione di “stato di salute”. Il consumo di stupefacenti è un “comportamento” o è uno “stato di salute”? Il drogato, in altre parole, è un malato o no? E il tabagista? Sapere che una persona fuma è un dato sensibile sanitario o no?…

Non parliamo poi del “trattamento”. La legge lo definisce come: “qualunque operazione o complesso di operazioni, effettuati anche senza l'ausilio di strumenti elettronici, concernenti la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la conservazione, la consultazione, l'elaborazione, la modificazione, la selezione, l'estrazione, il raffronto, l'utilizzo, l'interconnessione, il blocco, la comunicazione, la diffusione, la cancellazione e la distruzione di dati, anche se non registrati in una banca di dati”. Praticamente qualsiasi cosa, ed è irrilevante se venga effettuata con strumenti automatici o no, oppure in modo sistematico o no. Vedere in faccia una persona costituisce sicuramente trattamento dei suoi dati, e per di più anche di dati sensibili: certamente ad occhio è possibile stimare la sua origine razziale od etnica ed anche farsi un’idea del suo stato di salute; potrebbe anche essere possibile capire per che squadra tifa e magari qual è il suo orientamento politico. Camminando per la strada raccogliamo dunque innumerevoli dati sensibili solo guardando le persone che incontriamo. Se poi stringiamo una mano ad una persona, e questa come spesso accade è sudata, stiamo anche raccogliendo del materiale biologico proveniente dal suo corpo e contenente il suo DNA! È un trattamento illecito? Dovremmo fargli firmare il consenso informato prima di salutarlo?

Basta, avete già capito dove stiamo andando a finire. Volendo salvaguardare tutto e tutti, il codice della privacy ha disposto definizioni e norme così ampie e generali che non è possibile rispettarle in pratica. Se si interpretano “col buon senso” si riesce a campare, ma se ci si mette ad osservarle alla lettera si finisce con lo scoprire che non si può, e l’unica alternativa è non fare nulla. Questa è l’interpretazione pessimistica di coloro i quali ritengono che la legge sulla privacy sia inutile e dannosa perché praticamente proibisce di fare qualsiasi cosa utile: personalmente non condivido tale visione, ma certamente alcuni pronunciamenti talebani del Garante incrinano in me questa convinzione, facendomi pensare che forse è la forma a prevalere sulla sostanza e che l’utilizzo del buon senso nell’interpretazione della norma è effettivamente errato e da evitare.

Mi spiace solo che il Garante si presti vieppiù ad alimentare tali considerazioni mostrando nei suoi interventi pubblici un comportamento particolarmente poco lineare: sembra infatti prontissimo ad intervenire con giudizi o azioni quando si parla del compenso di Travolta al festival di Sanremo o del consumo di droga dei parlamentari, un po’ meno quando c’è di mezzo un’intera industria dell’informazione illecita come nel caso Telecom. Salvo poi tacere del tutto quando, come commentavamo in passato su queste colonne in relazione ad impianti abusivi di videosorveglianza (si veda: Videosorveglianza: due pesi e due misure?), il trattamento palesemente illecito sortisce tuttavia effetti di utilità sociale. A questo punto l’uomo qualunque non può non chiedersi se effettivamente la legge sia uguale per tutti, o se davanti ad essa non ci sia qualcuno “più uguale” rispetto agli altri. E se la legge sulla privacy tuteli davvero i deboli e gli indifesi, come ci dicono, oppure non possa servire a tutelare gli interessi dei potenti mettendo a tacere le scomode voci fuori dal coro. Se questo è il diritto, meglio il rovescio…

Inizio pagina  Indice della sezione  Prima pagina © InterLex 2006 Informazioni sul copyright